Gerry: il concept sulla ricerca firmato Gus Van Sant

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Questo articolo rivela la trama e la spiegazione dettagliata di Gerry, il film di Gus Van Sant del 2002, svelandone i significati e gli eventi descritti. Se ne suggerisce dunque la lettura solo ed esclusivamente dopo aver visto il film, e non prima, per evitare di perdervi il gusto della prima visione.

Sembra pacifico che ogni volta che si guarda un film noi andiamo alla ricerca di una storia ben raccontata. Ma anche di una ricerca emotiva, una sensazione anche solo guardando i volti dei protagonisti. Ci sono film che hanno trame fittissime dove i dialoghi sono assolutamente indispensabili per tracciare una linea psicologica dei protagonisti e per contestualizzare il tempo storico e sociale del film.

Ma ci sono autori che scelgono di raccontare una storia in maniera distorta, con flashback che sembrano voler confondere le acque, ma che invece è un modo originalissimo per narrare una vicenda.

Poi ci sono quei film che oseremmo definire “dell’impossibile”, e cioè quando sembra che il regista voglia solo provocare il pubblico, girando film che davvero sembrano non avere voglia di raccontare nulla, ma solo una mera ostentazione di immagini e situazioni che sanno di grottesco perché con le nostre vite non hanno nulla da condividere.

L’astrattismo quindi in ambito cinematografico è un terreno molto insidioso, perché è di difficile interpretazione il messaggio che l’autore vuole dare. Registi come David Lynch, Stan Brakhage e tanti altri nel tempo si sono costruiti una fama di registi di difficile interpretazione, con il risultato che in tanti asseriscono che questi autori voglio solo prendere in giro chi guarda le loro opere. Ovviamente non è assolutamente vero questo, ma è piuttosto dare vita ad uno stile che vuole mostrare marginalità che noi non sappiamo che esistano.

Gerry / opening scene

Gerry, insieme a Elephant e Last Days, è il film che fa parte della “Trilogia della morte” di Gus Van Sant, cioè un trittico che hanno in comune un’elaborazione particolare della morte. Ed è, appunto, una di quelle pellicole destabilizzanti e fuorvianti, la cui interpretazione passa sempre da diverse strade.

La trama è la seguente: due amici, intraprendono un viaggio verso una meta ignota, si perderanno nel deserto, ma loro continueranno imperterriti a continuare il loro cammino, spinti da un richiamo misterioso che li porterà ad una resa delle loro anime inquiete e smarrite.

Il tutto si svolge in un silenzio irreale che è anche, se vogliamo, il terzo protagonista del film. Infatti per tutta la durata del film (cento minuti) ci sono all’incirca dieci minuti di dialoghi. Si vedono questi due amici, interpretati da Matt Damon e Casey Affleck, bravissimi a dare una luce inquieta e affannosa ai due personaggi. Di cosa vanno alla ricerca? Non si sa. Chi guarda sopporta e soffre, perché il film ha una struttura anticonvenzionale per narrare una storia d’amicizia e di vita senza dialoghi, e quindi è difficile capire cosa pensano i due Gerry. Eppure Van Sant decide di registrare il suono in presa diretta, dando più profondità alla performance attoriale di Damon e Affleck, che recitano fino a diventare se stessi, come se quello che succede durante il film sia una testimonianza di vita vera, senza plot da seguire.

La cinepresa li segue, come un angelo custode, e riesce a dare luogo ad un lungo flusso di coscienza visivo, facendo vedere questi spazi immensi, e panorami intensi. È un terzo occhio che ha il dono di rivelare quello che con le parole non si riesce a svelare, a dare una forza che per ognuno di noi ha un significato diverso. Nel lento e inesorabile cammino che i due intraprendono c’è una ricerca di qualcosa che non si vede, che però noi percepiamo solo sentimentalmente, in silenzio, come il silenzio che frappone noi e il film. È un esempio anche di pareidolia, una delle più belle illusioni ottiche che esistono in natura: guardiamo una nuvola e lo associamo ad un viso, un oggetto.

Durante la visione di questo film succede proprio questo, i pensieri più reconditi escono fuori e ci fanno riflettere. È un’esperienza che si avvicina alla meditazione visiva, dove invece di chiudere gli occhi per concentrarsi, qui li teniamo aperti e assistiamo impotenti ad un’iniziativa folle, senza motivo e senza un nesso logico. Soffriamo e cerchiamo con loro senza nessuna soluzione, senza azione. Una determinazione ad arrivare alla fine del percorso, che è quello della nostra vita, dove a volte le risposte le abbiamo, e altre volte no.

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