Cent’anni di Solitudine: dentro l’officina letteraria di García Márquez

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Se dovessimo pensare all’epopea della letteratura iberoamericana, certamente penseremmo al colore del ghiaccio a cui Aureliano Buendìa affidò il suo ultimo pensiero sul plotone di esecuzione, prima che il buio lo disintegrasse in un cumulo di polvere biblica.

Ci penseremmo, e forse riusciremmo a penetrare lo sguardo chiaroveggente di Aureliano che svela il mistero degli zingari, dell’alchimia e delle formiche rosse che sbranano l’ultimo uomo della stirpe. Riusciremmo persino a sentire la consistenza scivolosa del ghiaccio sui polpastrelli, e a immergerci nell’aura rarefatta che aveva dovuto avvolgere il colonnello prima che un fucile gli scaricasse addosso un vigoroso strepito di morte e oblio.

Probabilmente, penseremmo a Remedios la Bella che sale al cielo avvolta da una nube di farfalle gialle, nuda e innocente come la natura selvaggia di Macondo, villaggio leggendario dai sassi levigati come uova preistoriche. O forse, avvertiremmo sulla lingua il sapore minerale della terra ingoiata da Rebeca Buendìa, sentiremmo l’odore di bestia cruda degli accoppiamenti tra indios durante le notti di sudore e magia, il tonfo sordo dei combattimenti da galli nel patio all’ora della siesta e la disperazione senza lacrime delle stirpi condannate a cent’anni di solitudine, a cui non è concessa una seconda opportunità sulla terra.

Penseremmo all’odore delle mandorle amare che impregna la carnosità cartacea di ogni romanzo di Gabriel García Marquez e che si fa creatura e pelle viva, e penseremmo all’alito dei morti che continuano a ossessionare i vivi rimanendo legati agli alberi e solleticando il telaio della memoria. O forse rivolgeremmo il nostro ultimo pensiero a un laboratorio in cui fabbricare pesciolini d’oro, al formicaio di un’umanità che si affastella sotto il sole cocente dell’America Latina o a qualche foglia morta che si sgretola nel ventre verace della nostra stessa solitudine.

Un lussureggiante serbatoio di odori pungenti e speziati e di visioni immaginifiche si stempera nel sapore epico e vagamente biblico dell’incipit più famoso della letteratura iberoamericana, quello di Cent’Anni di Solitudine di Gabriel García Marquez, che ricevette il Nobel l’8 dicembre 1982 con un discorso sulla Solitudine dell’America Latina.

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Lo scrittore colombiano, demiurgo contemporaneo e creatore della parola viscerale, trentasei anni fa offrì alla platea di Stoccolma il racconto di Antonio Pigafetta, navigatore fiorentino che accompagnò Magellano nel primo viaggio attorno al mondo e che scrisse un resoconto dopo aver attraversato i lembi dell’America Meridionale. Il primo punto di contatto tra Italia e ricezione di qualcosa d’altro, è tutto lì: la creazione del mito dell’America Latina in Europa affonda le radici nell’acqua e nel legno delle navi delle scoperte geografiche, e si nutre di immaginazione e fantasia ai limiti dell’allucinazione.

Pigafetta raccontò, tornato in patria, di maiali con l’ombelico sulla schiena, uccelli privi di zampe, pellicani senza lingua e mostruosi animali con corpo di cammello e orecchie di mulo. Questa è la terra farinosa da cui Marquez attinse per plasmare il profilo dei bambini con la coda di porco nati dagli incontri sessuali incestuosi, così come impresse ai suoi personaggi le stesse fattezze e tratti somatici dei membri della sua famiglia, le cui identità si stemperano nel fumo della leggenda.

Con la sua scrittura grondante di umori, fragranze e solitudine, e con la sua narrazione scorrevole e camaleontica, godette di un successo straordinario che avviluppò fin da subito i lettori italiani nelle sue scaglie di serpente. Fino agli anni del successo di Cent’anni di solitudine (che apparve per la prima volta in Italia nel 1968,e che godette del terreno fertile degli scrittori che l’avevano preceduto, quelli del cosiddetto boom), nessuno in Italia aveva mai osato pensare che in America Latina ci fossero prodotti culturali edificanti ed interessanti.

Tracciare una biografia di Márquez equivale a toccare con mano la materia bruciante di cui erano fatti i suoi ricordi, che risalivano fino alle viscere del villaggio fluviale di Aracataca nella Colombia Settentrionale, dove Gabriel José de la Concordia García Márquez nacque il 6 marzo del 1927.

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Primo dei sedici figli del telegrafista Gabriel Eligio Basilio García (1901-1984) e della sedicente chiaroveggente Luisa Santiaga Márquez Iguarán (1905-2002) Gabriel García Márquez trascorse un’infanzia dal sapore fantastico, intessuta di sospiri mitici e fiabe popolari sussurrate dalla nonna Tranquilina Iguarán Cotes (1863-1947): questi singulti di leggenda nutrirono la sua mente, e fecero germogliare in lui il desiderio ossessivo di imprimere quella nebbia evanescente di racconti popolari su carta, che lo tormenterà fino a quando non riuscirà a pubblicare Cent’anni di solitudine. Crebbe a Riohacha (dopo il trasferimento da Aracataca) proprio con la nonna Tranquilina e il nonno Nicolás Ricardo Márquez Mejía (1864-1936) colonnello liberale, nella cui figura aleggiarono da sempre gli occhi e la fisionomia del colonnello Aureliano Buendía; nel 1940 abbandonò la casa dei nonni per andare a Bogotà a studiare in una scuola di Gesuiti, il Colegio San José, e nel 1947 iniziò gli studi di giurisprudenza e scienze politiche presso l’Universidad Nacional De Colombia, che presto abbandonò per via dello scarso interesse che lo studio di quelle materie suscitò in lui.

Fu poi la volta del giornalismo, che fu una parentesi abbastanza consistente della vita di Márquez: cominciò l’attività giornalistica come redattore e come reporter del giornale El Universal, dopo i disordini del 1948 (nel periodo denominato La Violencia, culminato con la dittatura di Gustavo Rojas Pinilla nel 1953), e pubblicò numerosi racconti sul supplemento letterario del quotidiano liberale di Bogotà El Espectador, racconti che gli fruttarono l’assunzione come cronista proprio presso quella testata nel 1946. Il giornalismo fu per Márquez un vero e proprio prolungamento della sua vocazione narrativa, lontano dalla secchezza e dall’aridità della classica cronaca lapidaria e concisa: per Gabo il giornalista doveva avere una preparazione solida, rigorosa e completa, al pari di un vero e proprio umanista. I reportage dello scrittore colombiano avevano la stessa ricchezza e complessità di quelli che sarebbero stati suoi romanzi e il suo scopo fondamentale non era quello di snocciolare notizie con la sterilità e l’impersonalità del cronista, ma quello di raccontare storie. Il suo giornalismo raccontava storie e abbracciava tutto il suo essere uomo e scrittore: il grande corpo della Colombia, esplorato e cesellato finemente con la sua penne da cronista, entrò ancor di più a far parte di lui come parte integrante e conoscenza profonda, e nutrì le suggestioni letterarie e le idee che accarezzava ambiziosamente.

Tra gli autori preferiti del Márquez di quegli anni figuravano Franz Kafka, William Faulkner, Fyodor Dostoevskij ed Ernest Hemingway e, oltre alla letteratura, anche il cinema fu una delle sue più grandi passioni: nel 1954 il giornale lo mandò a Roma, in veste di corrispondente europeo, e qui si iscrisse al Centro Sperimentale di Cinematografia ed ebbe modo di seguire un corso di regia. L’anno successivo, quando il dittatore Rojas Pinilla spazzò via ogni forma di opposizione in Colombia, anche il quotidiano El Espectador presso cui Marquez lavorava, fu costretto a far cessare le pubblicazioni.

Qui, nel momento forse di maggior difficoltà e di indigenza della vita dello scrittore, si collocò l’inizio della parabola del romanzo che lo avrebbe fatto passare alla storia da protagonista, Cent’anni di solitudine: trasferitosi a Parigi in un alberghetto delle Rue Cujas  frequentato solo da latinoamericani,  Márquez iniziò a scrivere. Povero, disperato, senza neppure i soldi per mangiare, decise che non aveva più nulla da perdere, avrebbe fatto di tutto per dare corpo a quel romanzo che lo ossessionava da quando aveva udito per la prima volta, da bambino, le leggende mitiche di sua nonna Tranquilina Iguarán, che continuavano a ronzargli in testa come mosconi impazziti, ostinati e impossibili da scacciare. Quei mosconi s’erano annidati sulla sua pelle da vent’anni, ed erano diventati sanguisughe.

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Non avendo più nulla da perdere, Gabo si rinchiuse in quella stanzetta d’albergo, si procurò il denaro necessario per sopravvivere e affrontò la macchina da scrivere con la stessa tempra di Aureliano dinanzi al plotone d’esecuzione: orchestrò con sapienza i suoi scenari, creò intrecci, aggiunse e ridefinì i capitoli che aveva scritto durante gli anni e che erano destinati a quel romanzo di cui rimandava la scrittura da troppo tempo, e intenerì la vecchia padrona dell’alberghetto francese con la sua determinazione da lavoratore ostinato, al punto che la donna gli condonò il debito che era salito a ben 123 mila vecchi franchi. Prese a scrivere giorno e notte, fermandosi solo per mangiare, disperatamente deciso ad arrivare al capolavoro e a toccare finalmente con mano il romanzo che aveva sempre immaginato e che desiderava più di ogni altra cosa

Ma anche questo periodo dedicato solo ed unicamente alla scrittura terminò presto: nel 1958 tornò in Colombia per sposare la sua fidanzata Mercedes Bacha che lo aspettava pazientemente da anni (e da cui avrà poi due figli, Rodrigo e Gonzalo) e nel 1959 riprese il lavoro giornalistico, abbandonato bruscamente per via della dittatura. L’anno seguente cominciò un ulteriore periodo di miseria e insoddisfazione personale, culminato con l’abbandono definitivo del giornalismo nel 1961: accantonato il giornalismo, sentì che non era neppure il momento giusto per riprendere il romanzo che aveva cominciato. Demoralizzato e sul punto di gettare la spugna, arrivò, alla fine del 1964, ad annunciare all’amico Álvaro Mutis che non avrebbe più scritto, mai più. La scrittura, da sempre il suo più grande amore e salvezza, gli era divenuta di colpo estranea e ostile, come una nuova nemica con cui combattere e che non faceva che regalargli fallimenti anziché i successi che aveva sempre sognato.

Ma, come spesso accade, è proprio quando si affonda nel più nero dei baratri e quando si tocca il fondo dell’abbattimento e della miseria che qualcosa o qualcuno aiutano a far riaffiorare l’animo dal pantano torbido della disperazione in cui era sprofondata. Quel qualcosa furono, ancora una volta, i mosconi instancabili che gli ronzavano in testa e che sussurravano le storie della nonna Tranquilina: non le avrebbe lasciate morire nella polvere del ricordo, le avrebbe tramandate e avrebbe proseguito e concluso il suo romanzo, senza aspettare il momento giusto o propizio. Capì che il tempo giusto bisognava crearlo con un personale moto di rivoluzione, con un atto quasi di forza destabilizzante e sconvolgente: scelse di dare ascolto per un’ultima, ennesima volta alla parte più sincera di sé, quella del bambino che ascoltava estasiato storie meravigliose nella casa dei nonni del villaggio di Aracataca.

Avrebbe potuto persino recitare a memoria le prime frasi del suo romanzo, “Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía avrebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio”, ormai già disposte in filari ordinati nella griglia della sua mente, e infatti la prima illuminazione che l’avrebbe portato a prendere la decisione di dedicarsi finalmente anima e corpo alla scrittura del suo romanzo l’ebbe mentre guidava la sua Opel sulla strada tra Città del Messico e Acapulco: fu proprio su quelle strade roventi che scoprì che avrebbe potuto recitare tranquillamente il primo capitolo del romanzo che aveva in mente.

Si liberò alla svelta di tutti gli impegni precedenti, raccolse cinquecento dollari per sopravvivere durante la scrittura e salì per la seconda volta sul plotone d’esecuzione, di fronte alla sua macchina da scrivere. Era l’inizio del 1965. I cinquecento dollari finirono però in fretta, e la moglie Mercedes fu costretta a impegnare il televisore, la radio e l’automobile; il giradischi fu uno dei pochi oggetti che mantenne in casa, perché Gabo amava ascoltare Bartòk, Debussy e i primi LP dei Beatles quando non era impegnato a disegnare i volti di Ursula, José Arcadio Buendía e Remedios la Bella.

La stesura di Cent’anni di solitudine si prese diciotto mesi, trascorsi nel perimetro di quella stanzetta che Márquez chiamava la cueva de la mafia, e nei quali smise di pagare l’affitto, si ritrovò a dover chiedere credito al macellaio e prese a fumare compulsivamente qualcosa come 30 mila sigarette per tutta la durata di composizione dell’opera. Scrisse, scrisse fino allo stremo, fidandosi di se stesso e concentrandosi nel terribile sforzo di coagulare un enorme materiale immaginativo e di domare una prepotente fluvialità narrativa, arrivando a un totale di 1300 pagine che poi, nella versione definitiva, ridusse a 490. Accumulò così tanti debiti, che, se il libro non fosse stato il successo che desiderava, avrebbe impiegato tantissimi anni per poterli saldare tutti; arrivato a scrivere le ultimissime parole del romanzo, “perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra”, Gabo si fermò a fissare il vuoto, quasi incosciente e inconsapevole di ciò che era appena accaduto.

A settembre del 1966 Márquez firmò il contratto di pubblicazione con la Editorial Sudamericana di Buenos Aires, casa editrice che aveva proposto a Márquez, mentre stava ancora scrivendo Cent’anni di solitudine, di pubblicare i suoi racconti (Nessuno scrive al colonnello soprattutto) anche negli altri paesi dell’America Latina. Dopo aver concluso e apportato le dovute modifiche a quello che riteneva il suo orgoglio e il suo capolavoro, Márquez si accinse ad inviare il dattiloscritto da Città del Messico a Buenos Aires; mentre si recava all’ufficio postale per la spedizione, una folata di vento rapì decine di fogli del prezioso tesoro letterario di Gabo, e lui e sua moglie dovettero inseguire il vento per recuperarli. Ma le disavventure non si fermarono a quella folata di vento, perché, arrivati all’ufficio postale, si resero improvvisamente conto di non avere abbastanza denaro per spedire tutto il dattiloscritto, e quindi dovettero dividerlo in due parti e inviare solo la prima parte, per occuparsi successivamente della spedizione della seconda. Dopo aver spedito metà dell’opera, Gabo e Mercedes si accorsero di aver inviato la parte sbagliata: avevano mandato la seconda parte e non la prima.

Nonostante i piccoli inconvenienti, le folate di vento e le due metà confuse, il dattiloscritto riuscì ad arrivare nelle mani di Paco Porrúa, talent scout della casa editrice Sudamericana che tanto aveva dimostrato di apprezzare i racconti scritti prima di Cent’anni di solitudine, e Márquez aspettò, trepidante, la pubblicazione dell’opera che avrebbe sancito il riscatto, la salvezza e la suprema gioia della sua vita, dopo anni di scottanti delusioni, privazioni e stenti che avevano coinvolto anche la sua famiglia.

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A settembre del 1966 Márquez firmò il contratto di pubblicazione con la Editorial Sudamericana. Nelle due settimane successive alla pubblicazione, il libro vendette ottomila copie, nei tre anni successivi seicentomila.

Gabo era ormai sceso dal plotone dell’esecuzione su cui era stato negli ultimi anni. Non doveva più combattere, contro i tasti della macchina da scrivere, temendoli come le scariche distruttive dei fucili, o sentirsi costantemente inadeguato di fronte al bianco della pagina vuota che lo fissava come una miriade di occhi accusatori e incalzanti; era giunto il momento di scendere dal plotone di esecuzione, sviscerare l’universo dei racconti della sua infanzia e renderlo materiale universale, creando dalle fondamenta un mondo che avesse la potenza evocativa ed espressiva della sua scrittura e la delicatezza delle farfalle gialle di Remedios la Bella.

Era giunta l’ora di far conoscere al mondo il colore del ghiaccio, e di dare alle stirpi condannate a cent’anni di solitudine -e a se stesso- una seconda possibilità sulla terra.

Cover image estratta dall’edizione commemorativa del 50esimo anniversario del libro

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