Il giornalismo imparziale sta morendo (e non è solo colpa nostra)

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C’è stato un momento in cui ci ha persino fatto piacere. Quasi una sorta di adolescenziale incoscienza del lettore medio: quando da una parte c’era Marco Travaglio che dava sfogo all’indignazione di una parte della collettività, snocciolando punti di vista di parte contro il premier del periodo, e dall’altra c’era Alessandro Sallusti a compensare, difendere, attaccare a sua volta. Era come se ci fosse un’esigenza latente di schierarsi, e si era disposti a concedere al giornalismo una punta di sfacciataggine più del solito, per rispondere a un’emergenza mediatica (se non reale, quantomeno percepita). Forse una parte del pubblico di lettori sapeva che c’era qualcosa di sbagliato, da entrambe le parti. Ma, più o meno inconsciamente, si lasciava passare.

Poi però ci si è resi conto che sfoderare un’opinione netta su qualcosa (meglio ancora se contro qualcosa) scatenava gli entusiasmi delle folle molto più che la migliore delle analisi imparziali, autorevoli, super-partes. Perché il professionismo tira solo in certi ambienti intellettuali che ormai sono da considerarsi di nicchia, mente lì fuori esistevano orde di lettori che erano stanchi, frustrati, insoddisfatti. E, aspetto decisivo per ciò che sarebbe successo di lì a breve, ignoranti: non sempre per colpa loro (non tutti sono in grado di comprendere appieno un’analisi politico-economica raffinata, ci può stare), a volte come bisogno innato (non è facile farsi convincere che si sia finiti in cattive acque nonostante gli sforzi delle classi dirigenti, è naturale preferire l’ipotesi che sia accaduto a causa di quelle stesse classi dirigenti, hai pure il vantaggio che è quasi impossibile provare il contrario), ma di lettori allergici alle posizioni analitiche ce n’erano e ce ne sono a bizzeffe. E le leggi dell’economia parlano chiaro: quando c’è una domanda (quella di posizioni “contro” che diano voce alla stanchezza della folla), passa poco che maturi anche l’offerta. Sia essa movimento politico che tendenza culturale e, dunque, realtà editoriale. È la storia della nascita di qualsiasi movimento di natura popolare, da almeno un secolo: lo chiamano populismo come se fosse cosa nuova, ma l’unica cosa nuova è la generazione di lettori che lo osservano.

Anzi no. C’è un’altra cosa del tutto nuova, che stavolta ha contribuito attivamente all’acuirsi del fenomeno: l’esplosione dei social media, come piazza virtuale in cui le opinioni di ogni tipo circolano liberamente, fanno proseliti, creano consensi. E se riescono a sviluppare anche concetti assurdi e intrisi di anacronismo come il terrapiattismo e le teorie no vax (dove si parla di scienza, fondata sull’accumulo di conoscenze che per costrutto non può fare marcia indietro, a meno che non intervengano le opinioni di parte, appunto…), figurarsi se non c’è spazio per quel peccato veniale che è la crescita di un’opinionismo aggressivo quel tanto che basta, incorniciato dalle gabbie editoriali dei giornali un tempo sinonimo di autorevolezza. A mali estremi estremi rimedi, no? Chi vota ha anche l’abitudine di leggere di tanto in tanto, quindi per ogni movimento politico che dà voce al popolo stanco ci sarà sempre un quotidiano (o peggio ancora un blog di punta) che offre posizioni di protesta, alimentando l’indignazione e mettendo da parte sempre più spesso l’etica professionale. Anche perché la professione nel frattempo è diventata un’optional, e per creare un’opinione popolare può bastare uno che sa scrivere bene, o ha la faccia che spacca lo schermo.

Ecco dunque spiegati i tempi in cui viviamo oggi. Dove le (poche) realtà che si impegnano a ricostruire programmi politici e intenzioni delle scelte legislative con fare analitico e imparziale hanno un pubblico di nicchia, silenzioso, che apprezza in silenzio e conta sempre meno, mentre pubblicare titoli, copertine, tweet a mò di slogan propagandistico atto a stimolare la condivisione di chi ha bisogno di urlare a tutti i costi un’opinione (fosse anche quella di altri) ha una tiratura social che levati. E siccome quel che funziona ha più valore di quel che è giusto o etico, scommettiamo tutto sul giornalista dal volto noto che è capace di schiaffarsi su un video Facebook per snocciolare slogan sul tema del momento, che i video tirano e alla fan page fa tanto bene; spendiamoci la nostra nuova onda mediatica con copertine colorate che prostituiscono l’autorevolezza dell’opinione in favore del baccano da bar, che il reato di semplificazione non esiste e anche le regole etiche faticano a definire l’errore (e poi io son giornale rock e ribellarsi all’etichetta mi fa pure comodo); rigiriamo i nostri canali social come contenitori di contenuti di intrattenimento e commenti caustici su questo o quel nome, reinventiamoci titolisti da panchina di calcetto. E per chi si offende ho persino pronto l’argomento della necessità: son giornale e sono business, son costretto a sopravvivere, per restare sul mercato devo esser popolare. Il famoso contributo statale all’editoria doveva servire proprio ad evitare di piegare la qualità giornalistica alle leggi economiche comandate dal potere del popolo. E infatti è demonizzato, pubblicamente attaccato e costantemente a rischio. Pensa te la coincidenza.

Ricapitolando: c’è un enorme pubblico pagante che ha ben chiaro quel che vuole, gli algoritmi dei social media che favoriscono chi gli dà risposte e un mercato editoriale in difficoltà che non può permettersi gesti di coraggio. Chi si impunta su un giornalismo costruttivo, serio, che mira a unire e non a dividere, che offre analisi e non opinioni, che vende competenze e capacità invece di titoli-specchio di una società che naviga tra un estremo e l’altro, chi fa tutto questo sarà anche un eroe, un combattente, un orgoglioso esponente della resistenza. Ma è anche un povero masochista.

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