Mute: guida ragionata al film più controverso di Netflix

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“Baby I’ll never let you go, all I see is all I know, let’s take another way down; Baby, baby, I’ll never let you down, I can’t stand another sound, let’s find another way in..”

David Bowie, Sons of the Silent Age, 1977

Duncan Jones, come noto, è figlio di David Bowie. Forse arriverà un giorno in cui si potrà omettere questa informazione parlando di un suo film (e lui se lo merita), ma nel caso del suo quarto lungometraggio Mute è semplicemente impossibile, considerando che l’intero film, disponibile su Netflix, è una dolorosa lettera d’amore al padre scomparso poco prima dell’entrata in produzione dell’opera.

La citazione in apertura è tratta dalla quarta traccia di Heroes, l’album leggendario che Bowie ideò, compose e registrò a Berlino nel 1977, quarant’anni prima di Mute, ed è perfetta per entrare nel mood di questo film e per descriverne il protagonista: Leo, uno stralunato e a tratti inquietante Alexander Skarsgard, ex Amish non più praticante che conduce un’esistenza quasi monastica nel bel mezzo della Berlino del 2052, imbevuta di luci al neon e attraversata da ogni forma immaginabile di degrado morale e umano. “All I see is all I know”.

Leo non comprende il mondo che lo circonda: ha perso la voce in un incidente subito da bambino, quando l’elica di un motoscafo gli ha tagliato la gola e la madre ha rifiutato un intervento chirurgico che avrebbe potuto riparargli il danno alle corde vocali, e ora vive in un piccolo appartamento circondato da foto in bianco e nero e ritagli di giornale, ascolta musica dal giradischi, disegna e realizza sculture in legno. Tutto quello che accade all’esterno non gli interessa: vuole solo completare un letto a baldacchino da regalare a Naadirah, la sua ragazza. Leo è un puro, un’anima semplice, talmente puro da risultare quasi stupido quando una notte Naadirah vuole confidargli un segreto e lui rifiuta di ascoltarla: il giorno dopo infatti Naadirah è scomparsa. Forse per colpa sua. Forse è stata rapita. Forse lo ha abbandonato. Leo dovrà uscire dal suo mondo di illusioni ed addentrarsi nei meandri peggiori di una città infernale, popolata di prostitute e prostituti, papponi, criminali di ogni ordine e grado e inquietantissimi robot sadomaso addobbati con dildo borchiati, al fine di trovare una soluzione al mistero che lo circonda.

Mute | Trailer ufficiale | Netflix Italia

Ma Mute non è solo la storia di Leo, è anche quella di Cactus Bill (Paul Rudd) e di Donald Teddington (detto “Duck”, Justin Theroux), due medici da campo americani che hanno combattuto una guerra in Afghanistan e ne sono usciti distrutti: man mano che il film avanza ci rendiamo conto che dietro la loro sagacia, il loro sarcasmo, le loro battute brillanti si nasconde il dramma di due uomini distrutti dagli orrori della guerra. Bill è un disertore, un fuggiasco in cerca di documenti falsi per tornare negli Stati Uniti insieme alla piccola Josie, sua figlia e unica ragione di vita, mentre Duck ha portato a termine il proprio dovere ed ha aperto uno studio medico a Berlino, ma nasconde un segreto terribile che pian piano emerge in tutta la sua mostruosità: è un pedofilo, per giunta ossessionato da Josie.

Il legame tra Bill e Duck è la cosa migliore del film, e Rudd e Theroux portano a casa due performance entrambe degne del podio delle rispettive carriere. I due personaggi non riescono a vivere separati, ed allo stesso tempo non riescono più a restare uniti, finendo per sabotarsi a vicenda in un continuo crescendo drammatico che rende la seconda parte di questo film, e in particolare i trenta minuti finali, qualcosa di veramente straziante. Come facilmente prevedibile, le due trame di questo film, apparentemente slegate tra loro, finiranno per avvicinarsi sempre di più nella seconda metà fino alla fusione finale.

Il grande errore commesso nell’approccio a questo film (complice una campagna promozionale di Netflix ai limiti della presa in giro) è stato il considerarlo un film di fantascienza, cosa che Mute non è e non vuole assolutamente essere: quello cui ci troviamo di fronte è un noir nel senso più puro del termine, un film VOLUTAMENTE ingarbugliato e difficile, quasi incomprensibile alla prima visione (dove a fare da padrone è la disperazione di fondo della vicenda) ma in grado di crescere esponenzialmente a quelle successive, quando con la mente libera ci si accorge che ogni indizio era al posto giusto, che la soluzione del mistero era sotto gli occhi di tutti già al minuto venti del film (basta avere buon occhio e si nota un dettaglio rivelatore) e che alcuni dialoghi apparentemente inutili erano in realtà fondamentali. Non è assolutamente una brutta sceneggiatura, come alcune recensioni della critica Usa, sempre troppo frettolosa, hanno voluto far passare: la scrittura di Mute è finissima e meticolosa, tra l’altro frutto di un lavoro durato oltre quattordici anni (tanto ha impiegato Jones a riuscire a realizzare questo progetto).

La fantascienza è solo un pretesto per creare un sfondo alienante in cui far muovere il piccolo gruppo di emarginati e disadattati che popola questa pellicola: mentre tutte le televisioni presenti nel film parlano incessantemente della vicenda di Sam Bell e dei suoi cloni (Sam Rockwell, protagonista del film d’esordio di Jones, l’acclamato Moon, che qui riprende brevemente il ruolo creando un ponte tra i due film) i nostri protagonisti sono troppo impegnati coi loro piccoli/grandi drammi personali per prestare anche solo un minimo di attenzione, e come loro anche noi non ci accorgiamo di una lunga serie di divertenti easter egg che ci ricollegano alle vicende di Moon e che restano sullo sfondo mentre siamo distratti da altro (uno su tutti: una scritta che annuncia il corto circuito, e di conseguenza la morte, del robot Gerty avvenuta in solitaria sulla luna).

Nella sua Berlino futuristica (il regista voleva appunto un film futuristico, non di fantascienza) Jones si diverte inizialmente ad omaggiare Blade Runner, il suo film preferito, riprendendo palesemente il celeberrimo dolly dall’alto verso il basso del capolavoro di Ridley Scott, ma quello che viene dopo è un film che in un certo senso “uccide” Blade Runner, prendendo direzioni completamente diverse tanto nella trama quanto nel tono, nei contenuti e nella morale: dove il film di Scott partiva da una premessa fantascientifica è si sviluppava con una storia che andava quasi ad eliminare l’elemento sci-fi, Mute arriva ad un unico elemento fantascientifico solo nel momento della svolta finale, giustificando quindi in pieno l’ambientazione nel futuro.

Tra gli elementi che hanno fatto storcere maggiormente il naso alla critica (l’accoglienza del film è stata un bagno di sangue, ad essere gentili) è stata la presunta carenza di world building, un problema che aveva afflitto anche il precedente film di Jones, Warcraft: L’inizio. Se è vero che nel caso di Warcraft la mancanza dei giusti tempi per prendere confidenza con l’ambiente azzoppava il film, per Mute ci troviamo invece di fronte ad una scelta stilistica precisa: la Berlino del film deve essere alienante per il barman muto e disattato Leo e deve esserlo anche per i due chirurghi mentalmente disturbati Bill e Duck. Avendo il final cut e il totale controllo artistico sulla pellicola, Jones stesso ha deciso in fase di montaggio di compiere numerosi tagli ed eliminare senza troppi problemi tutte quelle scene che erano irrilevanti ai fini del succo della trama (ottenendo comunque un film di 126 minuti, il più lungo della sua filmografia). L’effetto finale è straniante e porta gli spettatori a vivere le stesse sensazioni dei personaggi protagonisti. Il risultato è stato detestato da molti, ma anche apprezzato notevolmente da chi è in cerca di film dal mood particolare, diversi dallo standard e non per forza superiori o inferiori.

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Quindi come si può definire Mute? Perdita di tempo? Film evento? Occasione mancata? Pellicola innovativa? Jones ha scherzato per mesi coi propri fan, paragonando il film ad un barattolo di Marmite (il cui slogan ufficiale recita “love it or hate it”) e dichiarandosi pronto a stroncature senza pietà già da tempi non sospetti, pur ribadendo di essere assolutamente orgoglioso della propria opera. Il giudizio migliore rimane quello di un utente Twitter che ha scritto “Un film Cyberpunk, molto più Punk che Cyber” e che in poche parole riassume alla perfezione questo lungometraggio. Gli elementi innovativi ci sono, sia nell’approccio al genere che nei contenuti della storia, c’è un’ottima sceneggiatura e ci sono almeno tre grandi interpretazioni (quattro, considerando un sorprendente e irriconoscibile Robert Sheehan nei panni dell’enigmatico Luba): sta come sempre allo spettatore dare un giudizio finale, in base ai propri gusti. L’unico consiglio possibile è partire dal presupposto che non si tratta di un film semplice né convenzionale.

E David Bowie? Onnipresente in tutta la durata del film, anche se i riferimenti sono ben nascosti dal regista, che sceglie un omaggio al padre costante ma non plateale. Si parte dal protagonista che nuota in una piscina insieme ad alcuni delfini animati (like dolphins can swim) e che nella scena successiva ascolta proprio Heroes su disco (ma nella versione sinfonica di Philip Glass) e si continua coi quadri e i disegni realizzati da Bowie durante il soggiorno berlinese che fanno capolino brevemente nelle case dei protagonisti, per passare ad un altro brano di Heroes (la splendida Moss Garden) suonato in un locale ed approdare infine al celebre Bowie Knife impugnato da Cactus Bill. Dopo oltre un decennio passato a creare una propria identità artistica, Duncan Jones ha scelto di abbracciare il proprio passato da figlio illustre e di imporre un ulteriore marchio di originalità ad un’opera che sarebbe senza dubbio piaciuta al compianto genitore.

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3 comments

  1. Io lo ho trovato banale, noioso, il protagonista è più stralunato che altro e non si capisce come un barista stenda con facilità irrisoria certi energumeni (la forza dell’amore?). La coppia di chirurghi mi pare un poco riuscito mix tra Mash e Il silenzio degli innocenti.
    Alla fine non riesco neppure a capire se Duck è più pedofilo o più innamorato di Cactus … e la povera bambina che passa dal bordello alla nonna pashtun … non mi è piaciuto.

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