Edward Hopper: la poetica della solitudine

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Tutto ciò che si rivela enigmatico dal punto di vista della comprensione è marchiato dalla presunzione di poter evocare, nelle persone, sentimenti contrastanti e misteriosi dalle origini impossibili da definire. Tale disorientamento muove nelle stesse una curiosità diversa, che potremmo azzardare a definire come nuova. Tramite l’uso di questo aggettivo non si vuole escludere la generale considerazione percepita della curiosità – impulso atto a contribuire alla fermentazione di nuovi interessi e connessioni e stimoli – bensì si vuole rafforzare il suo carattere estremamente evocativo, capace di generare un’ulteriore consapevolezza legata a uno stato di coscienza dormiente, ma ora risvegliato.

Mentre si osserva un’opera di Edward Hopper, l’impressione è quella di trovarsi di fronte a qualcosa di sfuggevole, inanimata. Per un attimo avvampa in noi la sicurezza di essere in procinto di cogliere il vero significato dell’opera; qualche momento più tardi la sicurezza si smaterializza in forza di una più massiccia sensazione di estraniamento. Si avverte l’eternità, nei quadri di Hopper. E all’eternità si contrappone la finitezza dell’esistenza umana. Da tale contrapposizione trova origine quella che è la paralisi. Nudi. Intimi. Stretti nelle nostre ansie, percepiamo la fragilità in rapporto all’unicità della nostra persona. E se pur ci credevamo per niente soli, è impossibile sfuggire dal velato senso di solitudine che dai nostri piedi sale strisciando, silenziosamente.

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Edward Hopper, Night Shadow, 1921

Hopper viene generalmente inserito all’interno della corrente realista americana. Ma, era davvero un realista? Si giudica realista un’opera che rispecchi in maniera esatta la realtà, o comunque ci si avvicini di molto. La realtà, nei quadri di Hopper, appare tuttavia trasfigurata, vicina all’irreale. È astratta, più che concreta. E da questo tipo di astrattezza prendono vita quei sussulti dell’animo probabilmente impossibili da sperimentare di fronte ai contorni concreti e razionali di un’opera, la cui coerenza artistica al realismo, non ammette alcun dubbio. Si può quindi affermare che la sua pittura rappresenti una continua transizione tra realismo e astrazione. Ciò costituisce uno dei punti di forza della pittura di Hopper, a cui si affianca la sua tendenza a togliere rispetto che ad aggiungere: il processo riduzionista di Hopper è estremamente funzionale per concentrare l’attenzione dell’osservatore al fulcro, al nucleo centrale del quadro. La realtà viene prosciugata di tutto il superfluo. Ciò che ne rimane è l’essenziale.

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Edward Hopper, Sun in an Empty Room, 1963
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Edward Hopper, Pennsylvania Coal Town, 1947
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Edward Hopper, Cape Cod Morning, 1950

Gail Levin, una biografa di Hopper, ne definisce la pittura “una poetica della solitudine”. Tuttavia il pittore rifiutava di vedere le sue opere venire etichettate con un sentimento o un’immagine precisa, determinata. Nei suoi quadri l’autore metteva tutto se stesso: ridurre a un’unica formula la sua pittura significa sminuirla, trascendere l’interezza della sua persona e, soprattutto, la vastità della sua intimità.

Fatta tale premessa, è impossibile negare che l’arte di Hopper non rimandi a un senso di solitudine, all’alienazione, all’incomprensione con se stessi e con gli altri, alla banalità e alla noia del quotidiano.

In quest’opera, emerge chiaramente l’essenzialità di Hopper: tutto appare fermo, immobile, privo di vita. Un uomo legge un giornale, e l’oscurità che si intravede fuori dalla finestra fa pensare che sia appena tornato a casa da una giornata di lavoro. Una donna gli siede poco distante, l’indice della mano proteso verso un tasto del pianoforte come se stesse attendendo una reazione, una manifestazione di interesse da parte dell’uomo. Un tavolino li separa. Una separazione che rimanda non solo a una distanza fisica, ma soprattutto intima, cerebrale. Entrambi sembrano avvolti da un alone di solitudine, di cupezza, di insoddisfazione. La notte diverrà più spessa; avanzerà inesorabilmente; finirà per inghiottirli entrambi.

Edward Hopper, Automat, 1927

In questo dipinto, una donna siede a un tavolino di un una tavola calda, sola. È ancora la notte a regnare sovrana, fuori. Anche qui vi è un tavolo a separare… ma dall’altro lato non vive nessuno. Coesiste unicamente una sedia vuota, a cui si potrebbe ricollegare un tentativo del pittore di rafforzare l’idea di solitudine. La donna mantiene un guanto in una mano: ciò potrebbe far pensare che si sia seduta a bere un caffè frettolosamente: non aspetta nessuno, e nessuno la raggiungerà.

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Edward Hopper, New York Movie, 1939

Qui invece, ci troviamo in una sala cinematografica. La prima cosa che passa all’occhio è il contrasto di luci e colori tra la sala di proiezione e la zona limitrofa, ove una donna poggia la schiena contro il muro. Osservando questo dipinto, la paralisi silenziosa, quasi oppressiva, caratteristica di Hopper, è estremamente tangibile. Nella sala a fianco nessuno fa caso alla donna: ognuno è concentrato su ciò che sta guardando. La figura femminile, invece, è visibilmente pensierosa. Stretta nei suoi drammi, è probabile che si sia allontanata temporaneamente dalla sala per rimanere sola con se stessa. Emerge l’alienazione dell’individuo, l’incomprensione, la noia, l’irrimediabile frattura della realtà in cui costui è ospitato a vivere, fino alla fine dei suoi giorni.

Ed ecco l’emblema della poetica di Hopper. La scena gli è stata ispirata da un ristorante effettivamente esistente nel Greenwich Village. Qui, la solitudine, avvolge interamente la scena rappresentata nel dipinto. Lo stesso autore dichiarò: “inconsciamente, forse, stavo ritraendo la solitudine di una grande città”.

È notte, la città dorme. Tre persone, due uomini e una donna, sono ancora svegli seduti al bancone di un bar. Un uomo è girato di schiena, in disparte. L’altro siede a fianco di una giovane donna. Non si riesce a comprendere se siano una coppia. Tuttavia, sembra che le loro mani si sfiorino. L’intera scena si carica di un retrogusto dal sapore noir. Magari l’uomo seduto a fianco della donna è un gangster e lei una donna viziosa; magari, invece, lui è soltanto un assicuratore e lei una casalinga, entrambi con l’insonnia nelle ossa. L’unico che sembra teso nell’atto di interagire con l’uomo davanti a sé è il barman. Ma ben presto, anch’esso viene risucchiato nella propria, indifesa, anonimia.

Questo capolavoro di Hopper dà un’idea estremamente veritiera di chi sono gli esseri umani. Uomini e donne costantemente soli, immersi nei propri problemi, vagabondi notturni in cerca di un briciolo di speranza a cui aggrapparsi. Incapaci di riconoscere nell’altro un loro simile, covano i risentimenti e i drammi che li assillano nelle profondità della loro persona, anche se finiranno inesorabilmente per cercare la compagnia, anche apparente, di qualcuno. Che li scaldi; che smorzi la gravità del peso che li tormenta. L’individualismo prorompe con maggior grinta, infesta e contagia tutti, nessuno escluso.

Entreremo in un bar a Greenwich Village, ci faremo servire qualcosa, e nella nostra atavica solitudine riconoscibile dal taglio glaciale del nostro sguardo, squadreremo le persone attorno senza proferire una parola. Finiremo il nostro caffè, pagheremo il conto e usciremo. In quel bar non ci siamo mai stati.

Persino la rappresentazione delle coppie in Hopper è emblematica.

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Edward Hopper, Summer in the City, 1950
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Edward Hopper, Excursion into Philosophy, 1959

Le coppie ritratte nei quadri di Hopper trasudano perenne insoddisfazione. Sono uomini e donne che percepiscono la distanza nei rapporti umani, impossibile da colmare con l’amore fisico. L’atmosfera è carica di depressione, di arresa, di impotenza. In Summer in the City si vede un uomo disteso a pancia in giù sul letto, con il volto sprofondato nel cuscino: emerge tutta la sua disperazione e lo sconforto. In Excursion into Philosophy invece, è la donna quella distesa sul letto. È girata su di un fianco e rivolge la schiena all’uomo seduto sul bordo del letto, come se non avesse interesse o voglia a interagire con lui. Forse è arrabbiata; magari è solo stanca: stanca di incomprensioni, di silenzi, di sguardi che dicono tutto quello che non si ha davvero il coraggio di dire.  Non sembra mai essere presente un moto di ribellione, tra le coppie di Hopper. Piuttosto, il sentimento che prevale è quello dell’accettazione. Un’amara accettazione.

Sempre in Excursion into Philosophy possiamo notare la presenza di un libro aperto. La moglie di Hopper affermerà che si tratta di Platone. Può la filosofia divenire un efficace strumento di evasione per l’indifferenza e i problemi di relazione, quando su tutto aleggia il senso del peccato – possiamo azzardare – kierkegaardiano?

Hopper non ci risponde. Il suo compito l’ha già svolto più che dignitosamente. È a tutti noi che spetta, semmai, di ricercare la riposta a tutti i quesiti esistenziali che possono, come accennavo all’inizio, risvegliare uno stato di coscienza dormiente poiché doloroso.

“Hopper ha saputo cogliere un momento particolare, quasi il preciso secondo in cui il tempo si ferma, dando all’attimo un significato eterno, universale”

C. Burchfield

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