Giorgio Faletti, il camaleonte

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Il Festival di Sanremo del 1994 cambiò completamente rotta la sera che Giorgio Faletti presentò la sua canzone in gara. Non era neanche la prima volta che l’ormai ex comico andava al festival: giusto un paio di anni prima ci aveva provato in coppia con Orietta Berti, ma non aveva lasciato particolari segni del proprio passaggio. Stavolta, invece, l’impatto del suo brano sarebbe stato diverso e quella canzone, Signor Tenente, sarebbe giunta quasi in vetta alla classifica finale, fermandosi al secondo posto tra la Passerà di Aleandro Baldi e gli Strani Amori di Laura Pausini.

L’emozionante sfogo del giovane carabiniere del sud, che proprio non riesce ad accettare le precarie condizioni lavorative sue e dei suoi colleghi, regala un’inaspettato successo a quella che diventerà in poche ore Minchia Signor tenente (tra i pochi brani ad essere ribattezzati a furor di popolo, come successe a Nel blu dipinto di blu, diventato per tutti Volare): con l’eco delle bombe e l’orrore delle stragi di Mafia del biennio precedente ancora ben presenti, Giorgio Faletti denunciava gli sforzi di dover rappresentare lo Stato con pochi mezzi e riconoscimenti, cercando nonostante tutto di non tirarsi indietro. Signor tenente conquistò l’attenzione generale e anche il Premio della Critica, probabilmente l’attestato più gradito in quell’occasione da Faletti, che sdoganava e legittimava così la sua seconda vita: quella di cantante.

Il cambiamento messo in atto da Faletti era stato tutt’altro che semplice. D’altra parte, per tutti o quasi la sua figura coincideva con quella dei suoi molti personaggi di Drive In (Carletto, il Testimone di Bagnacavallo, Suor Daliso), tra cui spiccava Vito Catozzo, guardia giurata abbondantemente sovrappeso e con una famiglia problematica: una moglie cubica (“un metro e quaranta per 140 kg”), cinque figlie e l’inaccettabile omosessualità dell’unico maschio, Oronzo Adriano Celentano Catozzo. Come poteva un comico da cabaret, che aveva iniziato la propria carriera al Derby, pensare di cambiare così radicalmente genere ed essere anche preso sul serio?

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In realtà Giorgio Faletti frequentava da anni gli studi di registrazione e aveva scritto fin dal 1978 per i Dik Dik e Dario Baldan Bembo, per poi concepire il desiderio di cimentarsi in prima persona con la musica, iniziando a incidere dal 1988. Mentre in lui cresceva la consapevolezza di voler abbracciare completamente (e coraggiosamente) questo cambiamento artistico, la rigidità tutta italiana respingeva le sue nuove aspirazioni: Condannato a ridere, titolo dell’album contenente la canzone con la Berti, spiegava molto bene come Faletti vivesse la sua metamorfosi.

L’affermazione sanremese gli permise quindi di sdoganare finalmente questa sua “seconda” vita di cantante e autore, limitando i continui raffronti con il passato (che, comunque, non sarebbero mai mancati): per tutto il resto degli anni ’90 la sua prevalente attività sarebbe stata la musica. Poi con il nuovo decennio una nuova prospettiva artistica rimise di nuovo tutto in discussione.

Nel 2002 Giorgio Faletti pubblica Io uccido, il suo primo thriller e, tra lo stupore generale, la sua terza vita artistica si impone nelle classifiche di vendita con quattro milioni di copie: lo stile evocativo, la forza della vicenda, l’intreccio cinematografico (da anni si parla di una serie tv basata sul romanzo) rendono Io uccido un evento e il suo autore di nuovo oggetto di critiche. Se il passaggio da cabarettista ad autore e cantante alla fine era stato tutto sommato accettato da pubblico e critica con qualche riserva, quello a romanziere fu ancora più controverso.

Faletti non aveva l’imprinting del musicista e tantomeno possedeva quello dello scrittore, ma la fortuna incontrata dalla sua prima opera metteva definitivamente in crisi uno degli hobby preferiti da noi italiani: quello di etichettare gli altri e inserirli in categorie specifiche e immobili, in cui li si lascia impantanati per sempre. E così, mentre si consolidava la sua nuova via letteraria e i suoi romanzi riscuotevano successo anche a livello internazionale, la critica analizzava con sempre più accuratezza le sue opere (sicuramente spesso troppo prolisse, ridondanti e con più di una fase di stanca), arrivando anche a insinuare tra le righe un sapiente lavoro di copia-incolla o addirittura la presenza occulta di un ghost writer.

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La copertina di Io Uccido

Il nervo scoperto sul fatto di dover sempre e comunque dimostrare la legittimità della sua nuova veste lo portava a sbandierare i suoi milioni di copie vendute, nonostante questo non possa dirsi necessariamente sinonimo di qualità: si può comunque comprendere cosa passasse per la testa dell’uomo e quanto fosse sempre più dura accettare… di non essere accettato. In Italia non è facile essere un camaleonte e cambiare pelle lanciandosi in qualcosa di nuovo rischia di essere percepito come il voler per forza rompere un tabù.

Intanto alcuni problemi di salute si erano affacciati nella vita del novello scrittore e nel 2014 un tumore tolse ogni possibilità a una eventuale nuova carriera. Giorgio Faletti ha vissuto più vite, reinventandosi e riuscendo a imporre ogni volta la sua visione: sostanzialmente quella di uomo che voleva essere libero di esplorare il proprio talento, con buona pace di chi non riesce a capire cosa significhi. A chi gli chiedeva perché avesse deciso di darsi ai romanzi, rispondeva che non riusciva più a trovare libri che lo spaventassero abbastanza e che l’unica soluzione era scriverne uno che riuscisse a incutergli timore: mi sembra una risposta che spiega molto bene il personaggio e il suo approccio alla vita.

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Luca Divelti scrive storie di musica, cinema e tv su Rock’n’Blog e Auralcrave. Seguilo su Facebook e Twitter.

 

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