Non sapere dove stiamo andando: Wes Anderson e Il Treno per il Darjeeling

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Jack, Francis e Peter sono tre fratelli molto diversi che, a un anno dalla morte improvvisa del padre, si reincontrano per intraprendere un viaggio spirituale in India e ricostruire il loro rapporto apparentemente inesistente. Jack si è da poco lasciato con la fidanzata (Natalie Portman), Francis è reduce da un terribile incidente e Peter sta per diventare padre. Durante il viaggio dovranno fare i conti con le proprie insicurezze e i loro problemi di varia natura, smaltire il dolore non elaborato della perdita del padre e rassegnarsi a una madre (Angelica Houston) che probabilmente non ha intenzione di incontrarli. Solo ritrovando fondamento in loro stessi riusciranno a fidarsi di nuovo l’uno dell’altro.

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Wes Anderson ci ha abituati a uno stile ironico e delicato – I Tenenbaum, Grand Budapest Hotel – e a un’estetica peculiare, con un’attenzione quasi maniacale al ton sur ton e a una simmetria talvolta ossessiva. Nonostante questi elementi non manchino in un film così giovanile (non ha ancora quarant’anni quando lo realizza), nel Treno alcune sequenze fanno sì che la profondità dei contenuti arricchisca la bellezza mozzafiato della fotografia e dei colori. L’India, con i suoi costumi e i mercati, rappresenta la tavolozza ideale per un regista che fa dell’uso del colore una delle sue firme, ma la caratterizzazione dei personaggi e alcune scene fanno sì che si prescinda, talvolta, dall’aspetto visivo.

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L’eleganza flemmatica di Peter (Adrien Brody), la riservatezza impacciata di Jack (Jason Schwartzman) e l’esilarante follia di Francis (Owen Wilson). Pur conservando quell’aura naif che contraddistingue i suoi personaggi, Anderson per una volta fa sì che questa non sovrasti i protagonisti, rendendoli inaspettatamente verosimili.

Ognuno dei tre fratelli ha qualcosa che ci riguarda, a partire dalle continue difficoltà nel relazionarsi col mondo e con gli altri. Ed è questa forse la caratteristica che rende Il Treno per il Darjeeling il film più “vero” del regista statunitense. Imperdibile se si vuole essere catapultati nel suo mondo pastello senza rinunciare a qualche disincantata lezione di vita.

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