Perdersi ancora Sulla Strada di Jack Kerouac

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È il 1951 e Jack Kerouac ha appena 29 anni. La seconda guerra mondiale è finita da poco e in America, così come in certa parte d’Europa, si può finalmente guardare al futuro con un certo ottimismo. Oltreoceano esplode il baby boom, un violento incremento demografico che ben illustra la fiducia riposta dagli americani nei tempi a venire. E in generale, nel mondo, sono molti altri i paesi in cui si assiste a fenomeni del genere: cresce il benessere, aumentano le nascite. Messo momentaneamente in quarantena l’incubo nucleare, il mondo si può concedere qualche boccata d’aria fresca. È in questo clima relativamente sereno che il ventinovenne Kerouac si appresta a scrivere On the Road (Sulla Strada), un’opera divenuta ormai un cult intramontabile, una vera e propria Bibbia di quel movimento dalle tinte vagamente controculturali -oggi si direbbe con facile generalizzazione indie– che di lì a breve prenderà il nome di Beat Generation.

Kerouac parte con una marcia diversa, compie una scelta originale e in linea col proprio sentire, “segnando” fin dalla genesi la sua opera “maledetta”. On the Road non viene scritto su dei comuni fogli cartacei, come chiunque si aspetterebbe, ma dattilografato su un rotolo di carta per telescrivente lungo 36 metri. Mentre scrive Kerouac si trova in un piccolo alloggetto di Ozone Park, nei sobborghi del Queens, New York. Gli ci vorranno appena tre settimane per terminare questo corposo romanzo, redatto sulla base di appunti presi durante il suo girovagare per gli Stati Uniti d’America. Già, perché l’essenza di On the Road è il viaggio, il viaggio inteso come scoperta, il viaggio come allontanamento da dinamiche precostituite e in qualche modo imposte dalla società, il viaggio come presa di coscienza e in senso più negativo anche come fuga, un viaggio che “non sapevo dove …ci avrebbe portato, né me ne importava”.

Non è certo un romanzo di formazione, On the Road, non in senso tradizionale almeno, non è un viaggiare teso a un miglioramento morale, etico di se stessi. L’America è scandalizzata da On the Road e da tutto quello che rappresenta, ne è spaventata. È un viaggiare che si nutre d’arte e droga, di marjuana, oppio, eroina, benzedrina, un viaggiare insensato, sconclusionato, che muoverà il protagonista Sal Paradise (nient’altro che l’alter ego di Jack Kerouac) e i suoi amici sulla scacchiera immensa degli Stati Uniti d’America, tra incontri, fughe e reunions, amori tragici e altri appena abbozzati, sbronze e postumi d’ogni genere, una libertà sessuale troppo disperata, smaccata, sfacciata per essere vista di buon occhio da un’America ancora così bigotta, puritana.

E anche lo stile suona troppo innovativo, libero, anarchico, disorganizzato. La prosa di Kerouac è infatti “spontanea” -come la definirà lui stesso- ed è proprio per questo motivo che decide di servirsi di un rotolo di carta piuttosto che di comuni fogli. “Ho scritto un romanzo su una striscia di carta lunga 120 piedi” -dirà in seguito lo scrittore- “infilata nella macchina da scrivere e senza paragrafi… fatta srotolare sul pavimento e sembra proprio una strada”. Non è un vezzo da artistoide incompreso il suo, è la necessità di poter scrivere senza “barriere” imposte dalla struttura del foglio, di poter vomitare sulla carta quanto gli passa per la testa, senza tanti fronzoli o artifici di sorta, senza troppa rielaborazione. Kerouac sputa sulla carta la sua storia così come se la racconta in testa, e per questo ha bisogno di un supporto che gli permetta il massimo dell’agibilità: deve scivolare sul foglio senza soluzione di continuità, stendere in un flusso ininterrotto le vicende che lo hanno visto protagonista a zonzo per l’America.

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La mappa degli spostamenti di On The Road

Non starò a tediarvi con questioni relative alla suddivisione del romanzo, ai debiti dell’autore nei confronti di Hemingway o Joyce, a questioni inerenti l’analisi lessicale dell’opera. Non starò neppure ad approfondire l’influenza che avrà la sua opera sulla letteratura americana successiva, perché ci sono stati autori senz’altro più significativi di lui in questo senso, uno su tutti il già citato Hemingway. Non farò tutto questo anche e soprattutto perché mi sembrerebbe di tradire lo spirito originario di On the Road, un’opera che nasce come un urlo di pura libertà in un’America borghese, in piena ascesa capitalistica, legata a una morale dogmatica e molte volte ipocrita. E non farò neppure un’analisi politica dell’opera, perché di politico in senso stretto – salvo strumentalizzazioni forzate e posteriori- in Kerouac non c’è nulla. Ci sono solo i suoi personaggi, per lo più distrutti e vinti, poetici, malinconici, pazzi (“le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno «Oooooh!»”), un’umanità variegata che in On the road emerge impeccabilmente in tutte le sue contraddizioni. Dal Messico a San Francisco, da New York a Denver, dal West dei Padri al più ridente Est. Nessuno è buono in On the Road, ma tutti sono salvati. E Sal/Jack si muove su questa scacchiera disperata, in autostop, in treno, a piedi, alla ricerca di un qualcosa che non troverà mai, nel continuo incontrarsi e scontrarsi di vite e vicende.

Nella stesura originaria, quella del rotolo per intenderci (oggi disponibile anche in traduzione italiana), i nomi dei personaggi citati sono quelli reali. In piena censura maccartista l’opera sarà rifiutata da molti editori, finché nel 1957 una piccola casa editrice di New York, la Viking Press, deciderà di pubblicarla, in una versione a quel punto già revisionata e tagliata da Kerouac stesso. In questa versione i nomi reali dei protagonisti saranno sostituiti con nomi di fantasia. Così il poeta Allen Ginsberg, amico di Kerouac, e personaggio fondamentale nell’economia di On the Road e poi della Beat Generation più in generale, acquisirà il nome fittizio di Carlo Marx, in onore al suo orientamento politico comunista, su cui Kerouac non si soffermerà comunque mai. William S. Burroughs, altro importantissimo scrittore legato alla beat generation, diventerà Old Bull Lee; l’amico fraterno di Kerouac, Neal Cassady, la cui figura accompagnerà virtualmente il protagonista per tutto il romanzo, sarà presentata col nome di Dean Moriarty. Dean è la vera molla del viaggio, il reale coprotagonista del romanzo, il motivo in carne ed ossa per cui Jack/Sal si mette in viaggio. Personaggio esagitato, curioso, vorace, capace di guidare per giorni e giorni di fila senza mai dormire, pazzo, carico di benzedrina, droghe d’ogni sorta e voglia di vivere, irresponsabile e strafottente, a tratti ingenuo come un ragazzino, insensibile e vitale, logorroico, bello, cow-boy figlio del West, Dean Moriarty sembra incarnare quella vitalità e quella freschezza che Kerouac vorrebbe possedere per sé. Lo scrittore è infatti rapito da Dean, ne è affascinato, così come ne è ammaliato Carlo Marx/Allen Ginsberg, che ne diverrà per breve tempo anche l’amante. La bisessualità di molti dei protagonisti di On the Road, Kerouac/Paradise compreso, è forse uno dei tratti che più scandalizzò gli americani di allora.

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Jack Kerouac, Allen Ginsberg e William S. Burroughs nel 1944

Oggi la portata eversiva dell’opera è chiaramente andata -almeno in parte- persa, il mondo nel frattempo è andato avanti e molti dei temi trattati in On the Road non suscitano più scalpore. Il film tratto nel 2012 dal libro, infatti, ha più il sapore di un’opera per nostalgici che “di rottura”. La droga, l’ambiguità sessuale, un certo nichilismo di fondo non suscitano più clamore, ed è molto difficile trasmettere la portata eversiva di un qualcosa che eversivo non è più. Ma c’é un qualcosa del romanzo che sopravvive indelebile e che sopravviverà vitale come allora, ed è un qualcosa che difficilmente passerà di moda, poiché costitutivo dell’uomo, e che Kerouac tratteggia in modo incomparabile: il tema della libertà dell’essere umano, del suo potere decisionale, del suo poter scegliere -nel bene e nel male- la propria direzione, il proprio viaggio. La strada non è altro che il cammino che ognuno di noi può scegliere per sé, lontano da imposizioni di sorta, dall’idea di quella tranquillità borghese che -seppur oggi abilmente mascherata- non è mai morta.

Lessi On the Road, una prima volta, a sedici anni. E sebbene ne sia passata di acqua sotto i ponti, e anche io non sia più quello di allora, rileggerlo oggi mi dà nuovamente le vertigini: è come sciogliere le catene che quotidianamente nascondono il nostro orizzonte e finalmente volare un po’. Così come è partito Kerouac, possiamo partire tutti per il nostro Grande Viaggio. E alle volte basta sapere di poterlo fare in qualunque momento per sentirsi un po’ più leggeri.

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