Lo scatto di London Calling dei Clash: un atto di distruzione divenuto storia

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“Three songs… no flash”. È questo l’imperativo del fotografo live al giorno d’oggi. Si viene accreditati, si accede al pit, si scatta solitamente per i primi tre brani (rigorosamente senza luci ausiliari) e si va via; la mole di foto scattate si aggira intorno alle centinaia, in un arco di tempo assai breve. Diviene essenziale la scelta dello scatto, la selezione delle immagini migliori.

Negli anni ’70 era diverso. Si seguivano gli artisti a bordo palco in una calca spesso indescrivibile e in assenza di spazi riservati, a volte per interi concerti o tour. I rullini a disposizione erano pochi e bisognava stare attenti a quando e cosa scattare: l’attimo diveniva ancor più fondamentale, i sensi dovevano essere sempre vigili e l’attenzione doveva altissima. La selezione ancor più determinante.

La fotografa londinese Pennie Smith aveva svolto il suo primo incarico per il New Musical Express tallonando i Led Zeppelin in tour. Evidentemente i suoi lavori dovevano essere andati piuttosto bene, dato che la prestigiosa rivista le affida un altro incarico di rilievo: seguire ed immortalare i Clash durante la tournée americana.

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Pennie Smith

Del suo peregrinare con la band inglese, una rilevanza particolare assumerà la sera del 21 dicembre 1979, al Palladium di New York, sul lato sud della 14esima strada.

Siamo al calar degli anni ’70. Il Punk aveva esalato già i suoi ultimi respiri, bruciando tutto ciò che si presentava a tiro sotto la sua furia iconoclasta. Un incendio sbalorditivo e senza eguali nella storia della musica ma che, evidentemente, ebbe un che di autodistruttivo; appena un battito di ali nel tempo, ma con un impeto ed un furore espressivi capaci di stravolgere per sempre l’universo della musica e del costume.

Ciò che rimase doveva essere, per forza di cose, qualcosa diverso, innovativo e, in definitiva, superiore.

Sopravvissero i Clash, band di gran classe e gusto, in grado di rinnovare il rock mediante il ripristino di generi disparati come il rockabilly, ska, pop, reggae, jazz, rock n’ roll. Ovviamente, residui punk, seppur in forme novelle e più variate. Il tutto sempre con estrema coerenza e, soprattutto, senza perdere mai di credibilità.

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The Clash

È questo l’humus entro cui si muove la giovane fotografa. I grandi superstiti di un movimento culturale e musicale breve quanto decisivo al cospetto di un pubblico, quello statunitense, di solito mai avido di riconoscenza ed entusiasmo nei confronti dei Clash.

Ma quella sera del 21 dicembre al Palladium, per una serie di ignote e strane motivazioni, non è così. Non si respira la solita atmosfera e la partecipazione del pubblico è diversa, minore: qualcosa di strano aleggia nell’aria.

Sul palco il bassista Paul Simonon lo percepisce, nota che le cose non sono come sono sempre state e come dovrebbero essere anche quella sera. Qualcosa effettivamente non gli torna: in un attimo, un solo immortale attimo, tutta la retorica hit et nunc del grido “No Future” del punk appare, epifanico come mai prima e mai dopo. In pochi secondi avviene ciò che Madre Storia ha deciso che deve avvenire, e la fiamma distruttiva del Punk ritorna ad ardere prepotentemente. Paul sfoga tutta la sua frustrazione, afferra l’albero del suo basso con l’intento di disintegrarlo sul palco, in un gesto al contempo di ribellione e distruzione, tutto sotto l’occhio vigile e, fortunatamente, attento di Pennie Smith.

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La fotografa riesce ad immortalare quel momento in tre scatti, che andranno ad aggiungersi alle miriadi scattate durante quel tour americano del 1979. E così, si ritorna all’importanza della selezione.

Più tardi infatti, al momento di scegliere l’immagine per l’artwork e la copertina di London Calling, dovendo scegliere tra centinaia di istantanee prodotte, Joe Strummer la vide e, all’improvviso, si bloccò: “That one!”.

Il dado è tratto. Si consegna alla storia una delle immagini che meglio rappresenta lo spirito di ribellione del rock. Il Punk non c’entra più nulla, andato, finito, sepolto. Almeno nella sua forma originaria. Resta lì sullo sfondo, ma è divenuto altro e solo grazie ai Clash.

È qui che avviene il passaggio dall’iconoclastia all’iconografia. Sull’immagine viene aggiunta la scritta London Calling in verde e rosa, con i caratteri ripresi pari pari dalla copertina di Elvis Presley (1956), il debutto del Re, morto appena due anni prima, nel ’77.

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La copertina del primo album di Elvis Presley

La foto è in bianco e nero, palesemente fuori fuoco — che orrore, quale barbarie. Inaccettabile al giorno d’oggi, vero? Del resto anche le foto dello sbarco in Normandia di Robert Capa lo erano, ergo… — ma in essa vi si scorgono echi artistici di tempi lontani e per nulla affini al Punk, che contribuiscono a rendere London Calling qualcosa di diverso e più complesso. Un’immagine storica.

L’importanza del gesto inteso come movimento creatore e danza artistica dell’Espressionismo Astratto americano (Pollock e De Kooning su tutti) rivive in questa copertina; di quell’America al contempo amata e odiata dalla band inglese, quegli States le cui origini vengono così chiaramente omaggiate dalla cover di London Calling attraverso l’omaggio a Elvis e alle radici del rock n’ roll più puro.

La stessa Pennie Smith ha raccontato di come la band avesse scelto lei perché i sui lavori esprimevano attraverso le immagini ciò che i Clash esprimevano in musica. Ecco dunque che l’icona di Paul Simonon catturato immediatamente prima dell’atto distruttivo presenta addirittura rimandi michelangioleschi: così come il David (1501 ca.), eroe e simbolo a difesa della Repubblica fiorentina, viene raffigurato subito prima di scagliare la pietra contro il gigante Golia, ecco che Paul Simonon assurge a simbolo per un nuovo rock n’ roll e, con lui, i Clash a difesa di esso.

La tensione e la frustrazione di due eroi raffigurati nell’atto che precede il caos, la ribellione, la difesa strenua di un’ideale.

Così lontani dalle velleità artistoidi — talvolta un po’ ridondanti — tanto care a molte formazioni Post-punk, i Clash sono pienamente esplicati in questa storica copertina. Loro non ci stanno, loro si ribellano, si schierano e si schiereranno sempre a difesa di ciò in cui credono.

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London Calling, la copertina dell’album

I Clash si gettano con forza contro l’incubo post-nucleare (“A nuclear error” del testo si riferisce all’incidente della notte del 28 marzo 1979 in Pennsylvania, quando un guasto al circuito di raffreddamento del nocciolo della centrale nucleare di Three Miles Island causò una perdita e la fuoriuscita di gas radioattivi) dichiarando senza mezzi termini “But i have no fear/’Cos London is growing and I live by the river”. Loro ci saranno. Sempre. In grado di guadare il fiume in piena del Punk per giungere su sponde altre e, probabilmente, più compiute e consapevoli.

Loro ci saranno sempre, così come oramai ci sarà sempre la copertina di London Calling, così pregna di significati artistici, psicologici e sociali. Dai vinili ai cd, dai poster alle magliette, l’imperituro sopravvivere di questa immagine ha fatto compiere il salto dall’iconoclastia distruttiva del Punk ad un’iconografia più classica. L’immagine che diviene immaginario.

Nelle grandi storie, così come nella grande storia della musica, nulla avviene per caso. Si deve dunque dire grazie a Pennie Smith per la sua lungimiranza e attenzione in quei pochissimi, storici istanti. Un enorme grazie a nome di tutti gli amanti non solo della musica Rock, ma di tutta l’arte in generale.

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