George Michael, tenace combattente contro il muro dei tabù

Quello tra George Michael e mass media non è mai stato un rapporto idilliaco: dieci anni fa, quando fu lui il primo artista musicale ad esibirsi in concerto presso il nuovo Wembley Stadium, inaugurato nel 2007, il bel cantante inglese dalle origini elleniche sfruttò la risonanza dell’evento per vendicarsi del continuo sciacallaggio operato ai suoi danni da parte dei rotocalchi di mezzo mondo, incitando il pubblico a pronunciare in coro la celebre frase “Kiss my hairy Greek ass!“, dedicata a tutti coloro che avevano alimentato gli scandali di cui era stato (controvoglia) protagonista fino a quel momento. Aveva mica torto? Da quell’aprile del 1998 non c’è stata una sola persona che non abbia associato il nome di George alla scabrosa vicenda dell’arresto per atti osceni scattato dopo che un agent provocateur in borghese lo aveva intenzionalmente seguito e spiato in un bagno pubblico di Beverly Hills. Michael all’epoca ne uscì malconcio, è vero. Ma se da una parte il suo orientamento sessuale venne inevitabilmente esposto alla berlina (disilludendo parecchie donne che ancora bruciavano di desiderio alla vista del suo culo perfetto stretto in jeans aderenti e mosso a ritmo nel video di Faith), dall’altra lo scalpore suscitato svelò delle virtù potenziali che spinsero il cantante a pubblicare un Greatest Hits riparativo, qualche mese più tardi. In più, si ripresentò sul mercato con Outside, un singolo spavaldo dalle vivaci sonorità disco pop, mediante il quale George trasponeva in musica l’episodio più disdicevole della propria carriera, risorgendo dalle ceneri dell’onta. Questo grazie a un videoclip in cui vestiva, ironicamente, i panni del poliziotto che lo aveva incastrato e si faceva beffe del conservatorismo americano, trasformando il luogo del misfatto in un trionfo di luci stroboscopiche e invitando chiunque ad uscire “allo scoperto”, come il titolo del brano recitava.

George si è spento lo scorso Natale, lo sappiamo tutti. Coerente nella sua fame di scoop, la stampa poteva forse esimersi dallo snocciolare fino allo stremo gli ultimi istanti della sua esistenza? Ovviamente no, e così le speculazioni sulla sua morte si susseguono di giorno in giorno fra testimonianze di amici, sfoghi postati (e subito dopo rimossi) da un presunto hacker sul profilo Twitter del compagno Fadi Fawaz e voci relative ad un’overdose accidentale o, peggio, ad un suicidio volontario.

Noi adesso vogliamo fermarci un attimo. Vogliamo lasciar perdere la cronaca e spostare, piuttosto, l’attenzione sul notevole input che George ha dato alla musica pop, nonché sul ruolo necessario quanto prezioso da lui avuto nella lotta mirata a scuotere le coscienze e abbattere il muro dei tabù socioculturali. Come quando, nel 1987, fresco di debutto da solista dopo lo scioglimento dei Wham! e sfoggiando il distintivo orecchino a forma di crocifisso, cantava I Want Your Sex esaltando la sensualità femminile e turbando, per ragioni diametralmente opposte, cristiani praticanti e adolescenti in preda a tempeste ormonali. Un’audacia tale da spingere MTV a relegare il video del brano alla rotazione notturna e le emittenti radiofoniche a non includere il pezzo nelle playlist a causa della rima esecranda “Sex is natural, sex is good / Not everybody does it, but everybody should“, giudicata deviante in un’epoca in cui il malanno dell’AIDS raggiungeva il picco epidemico. Ironico per una canzone che, tutto sommato, inneggiava semplicemente alla monogamia.

Sacro e profano, lussuria e dimensione spirituale non vanno viste come antinomìe inconciliabili, spiegava in quegli anni Madonna esortando all’uso del preservativo, e George non è stato da meno nel farsi portavoce di un messaggio che, in buona sostanza, riguarda la vita di tutti noi. Older, fortunatissimo terzo album del cantante, vedeva Michael passare con naturalezza dall’emozionalità mistica di Jesus To A Child (ballata scritta in memoria del compagno mai dimenticato, Anselmo Feleppa, morto di aneurisma cerebrale nel 1993) alla libidine notturna di Fastlove. Cosa c’è di male in un uomo, allora single, che ogni tanto amava concedersi il guizzo degli incontri furtivi? Era proprio lui, del resto, a glorificare il piacere dell’eros privo di legami e convenevoli in questo brano: cadeva l’anno 1996, la scena mainstream amoreggiava con quelle sporche basi funk di matrice anni ’70 su cui veniva adagiato un rhythm’n’blues dai toni vellutati, con tanto di tocco vintage donato dal fruscìo vinilico costantemente udibile tra le percussioni, e ad immortalare fin dalle prime note Fastlove era il grido melodioso di un synth che richiamava alla mente lo squillo di una sirena urbana, seguito da un assolo di sax non iconico quanto quello di Careless Whisper, ma altrettanto ammaliante, e dalla voce a metà strada fra bisbiglio e cantato di George (“My friends got their ladies / They’re all having babies / But I just wanna have some fun“).

Cosa dire poi del valore e, soprattutto, del rispetto dimostrato nei riguardi del gentil sesso? Freedom! ’90 (il cui videoclip ha superato la soglia dei 37 milioni di visualizzazioni su YouTube proprio il 26 dicembre) poneva in risalto la bellezza muliebre in tutto il suo splendore, quintuplicata attraverso le curve armoniche e il viso perfetto delle top model più richieste del periodo (Linda Evangelista, Naomi Campbell, Christy Turlington, Cindy Crawford e Tatjana Patiz), che oltre a rendere le sfilate di moda autentiche celebrazioni del glamour incarnavano (sia per George che per il regista David Fincher) un esempio puro di donna indipendente, non più succube del maschio dominatore bensì realizzata nel lavoro e nella vita personale: una rivalsa così urgente nella cultura pop di quei tempi da rendere il video medesimo una sorta di antesignano del Girl Power professato sei anni più tardi dalle Spice Girls. Freedom! ’90 rappresentava però anche qualcos’altro: era uno sfogo liberatorio con cui George prendeva le distanze dai feticci che lo avevano reso un sex symbol idolatrato dalla folla (la chitarra e la giacca di pelle con stemma sul retro in primis) e si opponeva, come pochi prima di lui, al monopolio delle major e alla tirannìa di alcuni esecutivi di spicco presso la Sony, casa discografica a cui era vincolato. Era arrivato persino a intentare una causa, poi persa, contro la compagnia, colpevole a sua detta di averlo condannato a una schiavitù professionale velata da un contratto pluriennale che di fatto lasciava poco spazio alla creatività e alla crescita artistica e lo stava man mano trasformando in una macchina da soldi (fondamentalmente fu questo il motivo che lo spinse ad abbandonare il secondo capitolo dell’acclamato album Listen Without Prejudice e a cedere l’ancora esiguo materiale inciso per il progetto a una compilation destinata a raccogliere fondi per la cura dell’AIDS). Ma questa ormai è acqua passata: proprio qualche mese prima della scomparsa prematura, George e la Sony Music, dimenticate le battaglie legali che furono, avevano annunciato l’uscita di un’edizione speciale e rimasterizzata di Listen Without Prejudice, al momento prevista per marzo, che raccoglierà in più formati le 10 canzoni del disco originario, le quattro tracce inizialmente registrate per il secondo volume scartato (Too Funky, Do You Really Want To Know, Happy e Crazyman Dance), alcuni remix e, infine, l’audio completo del concerto unplugged tenuto nel ’96 presso gli studi di MTV.

Musicalmente parlando, George è sempre stato uno dal fiuto canino quando si trattava di anticipare tendenze e adeguare quelle già consolidate al proprio stile. Nel 2004, ad esempio, restò affascinato da una discreta club hit, Flawless, pubblicata dal trio newyorkese The Ones qualche anno prima, e decise pertanto di campionare l’intera traccia strumentale (d’ispirazione French House) scrivendo una nuova canzone, Flawless (Go To The City), e fregandosene altamente dei limiti di durata consoni al formato fisico quando volle includere la versione integrale del pezzo, da 6:51, nell’album Patience.

Eppure, c’è una fase del suo percorso artistico in cui Michael si è davvero spinto più oltre che mai, lambendo l’avanguardia musicale: accade nel 2002, George sta dedicando mente e corpo alla creazione di un album che vanta persino collaborazioni con i Daft Punk, ma che alla fine non vedrà mai la luce, a Londra, nello studio di registrazione in cui, casualmente, anche Madonna appare più volte con prole al seguito, impegnata a provinare alcune demo per quello che diventerà il suo nono LP, American Life. George finanzia quelle sessioni di tasca propria, essendo ai tempi privo di un contratto discografico, e ciò lo rende libero di osare componendo e producendo brani senza alcuna direzione imposta. Da premesse di questo tipo, emerge il controverso brano Freeek! che viene subito scelto come singolo apripista di un’era sfortunatamente troncata sul nascere. La traccia è un intrigante guazzabuglio di samples che spaziano dall’hip hop alle sonorità industriali, incluse quelle tipiche delle vecchie connessioni Internet a 56k, con una maliziosa synth line dal fischio acuto e tremulo che cattura appieno l’ostinato imporsi dell’elettronica digitalizzata agli albori del terzo millennio e una bassline gelatinosa, presa in prestito da Try Again dell’indimenticabile Aaliyah, che striscia torbida durante il breakdown e accompagna la base fino alla chiusura del pezzo. A cesellare il tutto ci pensa poi un video diretto da Joseph Kahn, ambientato in una futuristica città della perdizione e ispirato al concetto di superuomo (connubio tra essere umano e macchina), già presente nel film fantascientifico Blade Runner del 1982.

Nonostante il mezzo fiasco di Freeek! (che debutta alla settima posizione nella chart inglese dei singoli), George prosegue imperterrito con la sua voglia di esprimersi, anche in merito a temi scottanti, e nell’estate di quell’anno giunge al punto di non ritorno con Shoot The Dog, brano dal testo provocatorio e dal video politicamente scorretto in cui la tacita complicità fra Tony Blair e George Bush ai tempi della guerra in Iraq viene equiparata, con impudente sarcasmo, al rapporto simbiotico tra cane e padrone. George attinse a Love Action dei Human League per donare al brano la giusta dose di brio electro pop, ma si guadagnò pure una scomunica morale da parte dell’America che da allora non lo avrebbe più perdonato, tacciandolo di filoterrorismo per quel video troppo scomodo e rinnegando il successo eccezionale degli esordi, arduo da riscuotere negli Stati Uniti per un artista britannico che ha da sempre scatenato contro di sé la gogna mediatica, vuoi per un pizzico di autolesionismo, vuoi per prestare fede alla convinzione per cui la musica costituisce un influente strumento socioculturale da maneggiare mai con cura.

E qui ci fermiamo, escludendo le tante altre cose che ci sarebbero da dire su George Michael. L’obiettivo, qui, era provare a spingere anche il più diffidente e prevenuto dei nostri lettori a cogliere per quale motivo sia opportuno ricordare George oggi e, soprattutto, domani. Come artista e personaggio controverso ma coraggioso, capace di combattere per le proprie priorità, anche contro gli schemi e i sistemi più consolidati. Qualcosa che oggi si fa sempre più raramente, sempre più in maniera caricaturale, il più delle volte solo per creare buzz fine a se stesso piuttosto che punti di svolta.

“JESUS SAVES ALL OF US”
 (George Michael, Ottobre 1998)

georgemichael

2 comments

  1. Bellissimo articolo, davvero!
    Analisi perfetta e contenuto che cattura costantemente l’attenzione. Non ne ho letti di altri, così. Il rispetto per l’artista si coglie in ogni dettaglio. E ne sono felice.
    Complimenti!

  2. Grazie mille per il tuo commento, Jenny! È sempre piacevole sapere che chi legge ha colto appieno il sentimento genuino di rispetto e passione con cui, spesso, si scrive un pezzo!

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