Il Bloc festival chiude, i rave sono finiti, ora risparmiateci lo scontro generazionale

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La notizia che sta tenendo banco questo weekend riguarda il Bloc, uno dei festival di musica elettronica & dance più importanti d’europa, che si tiene da dieci anni in Inghilterra. Grazie a una location caratteristica protagonista delle edizioni più riuscite (il Butlins Resort alle porte di Bristol, praticamente mare, spiaggia e spazi abbondanti per i palchi) e a una selezione di artisti di carattere e con pochi compromessi, il festival ha visto la sua popolarità salire vertiginosamente di anno in anno. Poi nell’edizione 2012 il mini-dramma, festival interrotto per questioni di sicurezza dovute fondamentalmente al pubblico eccessivo, scandalo che corre sulla bocca di tutti e timore che questa bella realtà sia chiusa. Invece no, il festival risorge dalle ceneri e riconferma la sua presenza annuale, fino all’edizione di quest’anno, tenutasi lo scorso weekend, con la solita lineup stellare, video come quelli qui sotto che fanno capire la portata della cosa e messa in atto comunque di tutto rispetto, che si sarebbe chiusa in positivo, senza che nessuno se ne fosse lamentato.

Invece il colpo di scena è arrivato, e bello grosso. A festival concluso, mentre tutti i magazine erano intenti a redigere e pubblicare i report con tutte le intenzioni di tesserne le lodi. Trattasi di questa lettera aperta pubblicata giusto ieri sullo storico magazine britannico The Spectator dallo stesso fondatore del Bloc, George Hull. Un articolo dal titolo “stupidi hipster alla luce del giorno – ecco perché con la dance di oggi ho chiuso” che attacca con toni aspri i partecipanti dei festival dance dei nostri giorni, definendoli viziati, incapaci di divertirsi davvero e lontani dallo spirito originale dei rave del passato. L’articolo è un continuo confronto tra le esperienze rave ricordate con nostalgia dall’autore durante la sua adolescenza e la sua visione del pubblico di oggi come simbolo del degrado dell’esperienza dance live. Non lascia spazio ad alcun fraintendimento, condanna il pubblico con manifesto senso di superiorità e ne prende le distanze in maniera definitiva, lasciando intendere che non organizzerà mai più alcun evento dance. Boom, magazine sotto shock, report ricorretti e ripubblicati in fretta e furia e reazione generale prevalentemente piccata contro i toni della lettera, spesso da parte di reporter che rientrano pienamente nel target contro cui si scaglia Hull (come il 22enne in palese difficoltà inviato da Mixmag).

Ora, è chiaro che qui siamo nel bel mezzo di uno scontro generazionale, prima ancora che di fronte a un’analisi dei tempi che cambiano. L’autore di quella lettera è un 32enne inglese che presumibilmente negli anni ’90 si è fatto molti dei rave britannici diventati cult per la scena dance e che oggi osserva il pubblico del suo festival, composto da adolescenti dell’età media tra i 16 e i 24 anni, provenienti da famiglie benestanti a sufficienza da permettergli una tre giorni di musica che tra biglietto, viaggio e pernottamento arriva tranquillamente a 500€. Pubblico che è ovviamente completamente diverso dagli scalmanati che nei ’90 captavano per strada voci circa il rave che stavano organizzando la sera stessa in una location remota fuori città, prendevano la prima macchina disponibile e partivano preoccupandosi più della roba da bere e consumare che di come tornare a casa. Un parallelo, quello tra i rave di 25 anni fa e i festival di oggi, in cui trovare somiglianze è praticamente impossibile. Un parallelo fondamentalmente fuori luogo. Scorretto. Che magari può solleticare sensazioni di pancia a chi si sente coinvolto, ma che a ragionare con la testa ti fa sembrare solamente stupido. E che a farlo bene son capaci in pochissimi, tipo solo gli Oldschool Gangsters di Rotterdam e due o tre altri.

Oldschool Gangsters | Early Rave Promo 2015

Perché i rave hanno rappresentato una parentesi ben precisa, che è durata in un momento storico, sociale e culturale ben preciso e che non si ripeterà più. Certo che erano completamente diversi dai festival odierni. Ovvio. I rave, almeno quelli di culto che ancora oggi fanno scattare l’entusiasmo degli amanti della dance, erano degli eventi illegali. Erano un atto di ribellione giovane contro l’autoritarismo del governo Thatcher, fenomeni che han visto diffusione in un contesto in cui la musica underground si diffondeva tramite le radio pirata, generi come la jungle e la drum’n’bass riuscivano a far scatenare come mai nessun’altro genere e la diffusione incontrollata dell’ecstasy dava al tutto una dimensione di vera e propria fuga dalla realtà. Tutto questo era decisivo per la definizione del pubblico dei rave, che non può paragonarsi in alcuni modo con quello dei festival di oggi: eventi di grande popolarità, che intendono pubblicizzarsi su tutti i magazine con orgoglio, che costano anche parecchio e si rivolgono a un pubblico fondamentalmente consapevole. Appassionato, certo, ma colto, che sa quel che vuole ed è esperto oltre la media. Vi è capitato più spesso di trovare a un festival di oggi dei drogati incoscienti e barcollanti o dei fan della dance che ti sanno descrivere con gli occhi che brillano le emozioni che gli han dato quel produttore X che tu conosci a malapena? I primi ci sono, certo. Ma ormai sono meno dei secondi. Chi ha un’idea anche vaga di com’erano i rave dei ’90, capirà da solo che siamo completamente in un altro mondo.

Ciò non toglie che anche oggi ci siano dei grandi festival dance, capaci di far divertire alla grande un pubblico che va dal 16enne alle prime esperienze al 50enne irriducibile, passando per studenti che ascoltano musica nei mezzi pubblici, onesti lavoratori che ogni tanto hanno ancora voglia di staccare la spina come si deve e a volte anche famiglie intere. Una varietà che per i rave che furono era impensabile. Eppure festival come il Sónar, il Melt, l’Awakenings, l’ADE, l’Hideout o l’Exit sono eventi che ogni hanno hanno un successo che mette d’accordo tutti, e sono eventi che ricorderemo con gioia e – perché no – nostalgia, tra dieci o vent’anni. E, tanto per chiarirci, ve lo dice uno che è coetaneo del 32enne di cui sopra e che quindi i vent’anni li ha passati da un pezzo, non può in alcun modo prendere sul personale quella condanna agli hipster (che sinceramente odio anch’io) e di festival se ne è fatti magari non tanti da reggere il paragone con chi lo fa da quando ha 16 anni, ma abbastanza da non sentire più il bisogno di non perdersene nemmeno uno (anche perché le lineup iniziano a somigliarsi tutte un po’ troppo, e non lo dico solo io).

Due sono i punti che più colpiscono di quell’articolo. Il primo riguarda la paradossale indignazione contro il fatto che coi festival di oggi i partecipanti comprano gli “early tickets” con mesi di anticipo, programmando di fatto l’esperienza-festival in ogni dettaglio e togliendo tutta la romantica spontaneità dei rave, che si organizzavano in maniera del tutto estemporanea, spesso nel giro di poche ore tra la prima voce di strada e l’inizio dell’evento. Ma ovvio che un festival si programma in anticipo. Si tratta di viaggiare, spesso di fare economia, se non abiti nelle vicinanze devi probabilmente prendere ferie. E poi tu, che vorresti il pubblico spontaneo e trascinato dall’entusiasmo, come pensi di organizzare un evento  di quella portata da un giorno all’altro (se è questo che intendi per spontaneità)? E ancora più strano il secondo attacco, diretto contro uno dei partecipanti dell’ultima edizione, che lamentava la mancanza di connessioni notturne tra il festival e i centri abitati vicini, così da dover ricorrere alle iniziative personali, un problema dal quale evidentemente l’organizzatore del Bloc si sente estraneo. Nella lettera gli dice “stai andando a un rave e ti preoccupi già di come tornare a casa?“. Beh, sì caro. Siamo nel 2016 e il prestigio di un festival è soprattutto nell’organizzazione. Se credi di poterti risparmiare la cura di tutti i dettagli logistici con la scusa dell’entusiasmo giovanile, mi sa che sei capitato nell’epoca sbagliata. O ti mancano un paio di basi che ormai spiegano anche alla CNN.

Il punto, caro George, è che se tu, organizzatore di un festival che è entrato nel cuore a migliaia di giovani appassionati di musica, di colpo ti schieri contro il tuo stesso pubblico, peraltro a valle di un’edizione che male non era andata per nulla, beh, ti stai tirando contro un epocale autogol. Perché tu sarai trentenne, avrai anche una certa esperienza, ma questo non ti autorizza a porti con un senso di superiorità contro i ventenni di oggi, che vuoi o non vuoi rappresentano il pubblico a cui si rivolge il tuo festival. Tu non devi accentuare le distanze, ma impegnarti a ridurle, concedendo un po’ di quel che i giovani vogliono oggi e nello stesso tempo educandoli nel modo giusto, sfruttando la tua maturità. È quello che fanno tutti i grandi festival che abbiamo citato prima, che al tuo autogol non si sognerebbero mai nemmeno di avvicinarsi. E mi verrebbe da ricordarti che i tre organizzatori del Sónar, di gran lunga l’evento elettronico più amato dal pubblico più trasversale che si possa pensare oggi in Europa, hanno un’età media di 50 anni. 50. Fottuti. Anni. Ecco, per loro il moccioso sei tu. Eppure ogni anno riescono a generare un’esperienza capace di piacere a tutti. Ai 15enni, ai 30enni e pure ai 50enni, senza distinzione.

Per dire che gli scontri generazionali non portano a nulla. Ogni decade è diversa dalla precedente, di posizioni nostalgiche per i bei tempi andati si riempiono ancora le pagine di libri e giornali (e non senza un fondo di verità) ma son cose che valgono nell’ottica di mantenere la visione di insieme e non perdere per strada i buoni valori, mentre comunque si cerca di rispondere ai tempi che cambiano. Uno ne fa un ragionamento intelligente, poi se è uno che ha il potere di fare qualcosa (tipo toh, che so, ha i mezzi per organizzare un festival importante), si sbraccia le maniche e prova a orientare il proprio pubblico verso un’esperienza che rispecchi il più possibile la propria idea di qualità, pur con tutte le difficoltà burocratiche, legali e di sicurezza che devi fronteggiare.

Se la tua idea di festival/rave di qualità però era Castlemorton ’92 e hai dato vita al Bloc con quell’obiettivo in testa, beh, hai sbagliato in partenza. E allora nella chiusa del tuo articolo hai perfettamente ragione: le strade tra te e il tuo pubblico è bene che si separino. A te i finti rave per nostalgici messi in piedi nei prati di provincia, al tuo pubblico gli eventi seri organizzati da professionisti che sanno quel che fanno. E a noi una polemica stucchevole in meno. Buona fortuna.

One comment

  1. Finalmente qualcuno che ha avuto il coraggio di smettere di perpetuare lo scempio che sono i festival oggi.
    Se vuoi un esperienza del genere vai a Disneyland e se ti va bene torni a casa con zucchero filato e uno selfie con topolino.

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