Dal disastro alla santissima trinità: il Manchester United di Best, Law e Charlton

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Appena possibile date la palla a George Best.”

Matt Busby

Il sei febbraio 1958 c’è neve, tanta neve a Monaco di Baviera. Anche l’aeroporto di Riem è invaso dal gelo e dal vento e con questa bufera il personale sconsiglia qualsiasi attività in pista, suggerendo di rimandare a domani.

Ma al Manchester United, che da Belgrado fa scalo in Germania con il volo charter British European Airways 609, non sembra importare e spinge per provare a volare comunque. Il tecnico Matt Busby e i suoi ragazzi terribili sono reduci dall’incontro con la Stella Rossa del giorno prima: con la sofferta qualificazione in semifinale di Coppa dei Campioni in tasca, desiderano solo tornare a casa e rilassarsi, prima di preparare la delicata sfida in First Division con il Wolverhampton.

Ma non è solo il maltempo a invitare alla prudenza: anche il bimotore Ambassador fa i capricci e nei due tentativi di decollo il motore sinistro si è surriscaldato all’accensione. Pressati dai passeggeri, l’esperto comandante James Thain e il pilota Steve Rayment decidono di riprovare un’ultima volta. Si potrebbe fare leva sull’altro motore per dare la spinta necessaria al velivolo e ritardare così l’accensione del bizzoso propulsore sinistro: per questa manovra l’aereo deve sfruttare una parte più ampia della pista, arrivando fino a una porzione dell’asfalto di solito non riservata agli aerei.

Il bimotore accelera al massimo e si stacca di pochi metri da terra, ma la potenza non basta e l’Ambassador ripiomba violentemente in pista diventando un’enorme proiettile impazzito. Il ghiaccio formatosi sull’ultima parte della pista lo trascina prima contro una recinzione, poi contro una casa disabitata: l’impatto spezza un’ala e stacca la coda, ma non ferma l’aereo in fiamme, che finisce la sua folle corsa contro un deposito di carburante.

È l’inferno: l’esplosione e l’incendio divorano subito ventuno persone. Muoiono sul colpo il capitano Roger Byrne, il centravanti Tommy Taylor, le ali Liam Whelan e David Pegg, i difensori Geoff Bent e Mark Jones, il mediano Eddie Colman. A questi sette si aggiunge poi anche la stella della squadra Duncan Edwards, che non riesce a vincere la sua partita più dura e se ne va dopo due settimane di agonia. Il totale delle vittime sale a ventitré su quarantaquattro passeggeri quando anche il copilota Rayment non riesce a riprendersi dalle ferite e muore tre settimane dopo l’incidente. Il sopravvissuto comandante Thain, ritenuto responsabile e licenziato dalla British Airways, passerà il resto della sua vita a discolparsi e solo anni dopo riuscirà in parte a dimostrare la corresponsabilità delle autorità aeroportuali tedesche, ree di non aver ripulito dal ghiaccio il fondo della pista. 

Air Disasters - Mayday Munich: Manchester United's Darkest Day

Per Manchester e per l’Inghilterra è una tragedia di immani proporzioni e fa ripiombare la memoria al disastro di Superga, che neanche dieci anni prima ha cancellato il Grande Torino. La ricostruzione è appesa a un filo, così come la vita dell’artefice degli ultimi successi del club, a cui hanno già praticato l’estrema unzione. Nei giorni seguenti, mentre è sotto una tenda a ossigeno nell’ospedale di Monaco Busby trova comunque la forza di incontrare il suo assistente Jimmy Murphy, che per puro caso non viaggiava al seguito della squadra nella sfortunata trasferta: al suo vice Busby sussurra con quel poco fiato che ha “Continua a far sventolare la bandiera, Jim”.

Jimmy non può dire di no e traghetta il Manchester United in quel che resta della stagione, segnata dalla difficoltà di mandare in campo una squadra competitiva. Il pubblico tiene su il morale e applaude gli sforzi del club, poi un pomeriggio si scioglie in commozione quando all’Old Trafford risuona la flebile voce del Boss Busby, che collegato telefonicamente promette che non è finita: “Aspettami, aspettateci, perché noi vinceremo la Coppa dei Campioni”

La Coppa è il sogno di Busby, che desiderava alzarla con i suoi ragazzi, ma per il momento resta tale: i Red Devils nulla possono in semifinale di coppa contro il Milan di Liedolm e Schiaffino. In campionato raggiungono un faticoso nono posto che sa di miracolo e ci sarebbe anche l’occasione della finale di FA Cup, ma della partita non importa a nessuno (e infatti vince il Bolton), perché sugli spalti gli applausi e i cori sono tutti per l’ancora malconcio Busby, seduto in tribuna e finalmente fuori pericolo.

Lui vorrebbe lasciare: troppo è il dolore per la perdita di amici e giocatori che lui stesso ha cresciuto, troppo il senso di colpa per una catastrofe che si poteva evitare. È la moglie Jean a convincerlo che il suo lavoro non è ancora finito e così dall’estate 1959 Matt Busby torna a guidare i suoi amati diavoli rossi nel momento più duro del club.

Ancora una volta è lui l’uomo della ricostruzione: quando nel 1945 arriva allo United trova una situazione finanziaria critica e neanche uno stadio dove giocare, dopo che i tedeschi hanno bombardato l’Old Trafford. Ogni penny che entra nelle casse dei Red Devils è destinato alla faticosa ricostruzione dello stadio: Busby, che non può permettersi l’acquisto di campioni, decide che se si vuole tornare a vincere è necessario investire nei giovani e affida al fidato Murphy la gestione del settore giovanile. Il lungo e delicato lavoro di selezione porta allo sviluppo di talenti da costruire in casa e poi lanciare in prima squadra: a metà anni cinquanta finalmente il club raccoglie i frutti e nasce la squadra dei “Busby Babes”, che vince due campionati consecutivi.

Busby e Murphy ora sono costretti a ricominciare da zero o quasi, perché della squadra che sognava la Coppa dei Campioni resta ancora uno dei migliori prospetti, un ventenne che porterà per sempre addosso il trauma di essere sopravvissuto e che proprio per questo giocherà ogni partita anche per chi non c’è più: Robert “Bobby” Charlton. Bobby esordisce come efficace centravanti di manovra, ma col tempo è a centrocampo che trova la sua consacrazione definitiva, diventando un’energica ed elegante mezzala a tutto campo. I suoi fulminei inserimenti da dietro, supportati da una poderosa capacità balistica con entrambi i piedi, lo rendono temibile a ridosso della porta, assicurandogli medie goal degne di un bomber. È attorno a lui e agli altri sopravvissuti Harry Gregg e Bill Foulkes che nasce il nuovo United, a cui si aggiungono pezzo dopo pezzo tasselli determinanti per la difficile rinascita, come i due terzini Tony Dunne e Shay Brennan e l’infaticabile mediano Nobby Stiles. Stiles, piccolo, miope e senza gli incisivi dopo una rovinosa caduta da bambino (da qui il soprannome “Nosferatu”), sembra più la caricatura di un giocatore in cui ci si imbatte nei film comici, ma Nobby va oltre i suoi difetti fisici e mette in campo energia, forza e determinazione che lo renderanno una leggenda per il club e il calcio inglese.

Anche davanti si muove qualcosa e dall’Arsenal arriva l’esperto David Herd, che si carica sulle spalle il peso dell’attacco dello United fino a che il mercato non propone una ghiotta occasione. Nell’estate 1962, dopo soltanto una stagione, il Torino decide di interrompere il rapporto con uno scontento Denis Law e Busby non si fa sfuggire l’occasione di riportare a Manchester l’ex giocatore del City: il costo del cartellino è astronomico, ma lo scozzese è l’uomo giusto per aumentare la qualità dei Red Devils. A differenza di Charlton, Law fa il percorso inverso e da prolifica mezzala diventa il fulcro dell’attacco di Busby, consacrandosi come uno dei migliori giocatori della sua generazione. Il suo apporto nella ricostruzione è da subito determinante, formando con Herd una devastante coppia che diventa un rebus per le difese avversarie. 

Assieme a lui viene ingaggiato il roccioso scozzese Pat Crerand, che diventa subito il cervello della squadra, andando a comporre con “Nosferatu” Stiles e Charlton uno dei più forti reparti di centrocampo della storia. Nella stagione 62/63 Busby e i suoi toccano contemporaneamente il loro punto più basso e quello più alto dal disastro di Monaco: in campionato un’altalenante Manchester United evita per un soffio la retrocessione, ma in FA Cup non sbaglia un colpo e vince il trofeo contro il Leicester City.

L’anno dopo i Red Devils arrivano secondi in First Division ed escono ai quarti nelle coppe europee: non vincono nulla, ma Busby e Murphy si rendono conto che il peggio sembra alle spalle. Foulkes guida la difesa e respinge i temerari che si avvicinano all’area di rigore; Law contribuisce alla causa come al solito con tonnellate di goal e vince il Pallone d’Oro 1964; Herd non è da meno e anche lui colleziona un ingente bottino di reti; Crerand e Stiles addomesticano palle e caviglie altrui per la classe di Charlton, leader indiscusso di una squadra che vede finalmente la fine del tunnel. Questi sono i principali protagonisti della stagione, a cui si aggiunge anche un diciassettenne irlandese che Busby butta in campo sapendo di non pentirsene. Sembra nato per correre e scatenarsi lungo la fascia, per accendersi in un lampo e scaricare in pochi attimi una folgore carica di sprezzante fantasia, che incenerisce avversari, avvampa l’area con assist e brucia portieri: lui è George Best e da Belfast è venuto a contaminare con i suoi dribbling pop il rigido calcio inglese.

George Best • Legendary Dribbling Skills

Assieme a Law e Charlton Best diventa il terzo violino di una squadra ad altissimo tasso tecnico, pronta nella stagione 64/65 a tornare a dominare il calcio inglese: la vittoria della First Division segna la fine della lunga ricostruzione e la definitiva consacrazione dei tre fuoriclasse, che assieme diventano la Santissima Trinità del Manchester United.

Busby e Murphy comunque non si accontentano e continuano ad aggiungere pezzi al mosaico della prima squadra, facendo esordire dalle giovanili John Aston Jr., un nuovo talento mancino delle giovanili che si aggiunge all’attacco dei Red Devils: ora con lui, Herd, Law e Best l’attacco di Busby diventa una macchina da goal con pochi eguali nel decennio.

L’anno successivo lo United non riesce a ripetersi in campionato e punta all’agognata Coppa dei Campioni, ma il cammino si interrompe in semifinale contro il Partizan di Belgrado, che andrà poi a perdere la competizione contro il rinnovato Real Madrid. Il 1966 è anche l’anno dei mondiali in Inghilterra, che i padroni di casa vincono sotto la leadership di Charlton, prossimo Pallone d’Oro.

Nella stagione successiva Busby prende dal Chelsea Alex Stepney, che sostituisce in porta Gregg, pronto a ricominciare la rincorsa verso la legittimazione europea, con cui coronare la sua ventennale carriera all’Old Trafford. Per vincere la Coppa dei Campioni è necessario prima riprendersi la First Division e i Red Devils inanellano una serie di venti partite senza sconfitte, che li aiuta a consacrarsi ancora una volta campioni inglesi. Busby si affaccia così alla nuova stagione con la consapevolezza che non gli restano molte altre possibilità di conquistare la Coppa dei Campioni, ma sapendo allo stesso tempo che stavolta la squadra è pronta per quell’ultimo salto, che lui sogna da un decennio.

Nel 67/68 sale in cattedra Best, che si prende la scena: la sua stagione è folle e lui la attraversa sospinto sulle sue ali da angelo con una superiorità tecnica impudente. George è il migliore di nome e di fatto, un diamante che brilla non solo sulla fascia del Manchester, ma che si spinge oltre e supera i confini dello sport, irradiando con la sua luce quei favolosi anni sessanta.

Best è il timido eroe ribelle di una generazione che si apre al mondo e non ha paura di cambiarlo, che si sente capace di ogni impresa ed è sorretta dalla speranza di un futuro sempre migliore del presente. Lui è bello, ha gli zigomi alti, un sorriso da guascone e conquista le copertine delle riviste, sconfinando in un mondo che prima raramente apparteneva a un calciatore: le tentazioni sono molte per colui che viene considerato il “quinto beatle”, le bottiglie stappate tante e le donne da intrattenere tantissime, ma per il momento il ragazzo riesce a mantenersi in equilibrio tra la vita d’atleta e quella della stella del jet set.

In First Division la lotta è contro un ostico City, che alla fine stacca di soli due punti i cugini e vince il suo secondo titolo inglese, mentre in Coppa dei Campioni i Red Devils riescono finalmente a superare la semifinale e il 28 maggio 1968 prenotano il viaggio a Wembley contro il Benfica di Eusèbio. La finale si sblocca solo nel secondo tempo, quando Charlton rompe gli equilibri con un efficace colpo di testa e porta in vantaggio i suoi. La supremazia nel punteggio dura poco e Graca con un destro da fuori area riacciuffa il pareggio a dieci minuti dalla fine. Nei supplementari i ragazzi di Busby dilagano e prima Best, poi Kidd (che sostituisce l’infortunato Law) e di nuovo Charlton chiudono la contesa. 

Manchester United Win European Cup vs S.L. Benfica (1968) | British Pathé

Durante i festeggiamenti Charlton e Foulkes alzano la coppa anche per chi non c’è più, mentre il loro manager li guarda felice come un bambino: Busby non ha più nulla da chiedere alla sua carriera, sentendo che si è chiuso un cerchio e inizia a pensare a un ritiro dal calcio. Quella successiva è la sua ultima stagione in sella al Manchester United, una squadra sazia di gloria e più in affanno del previsto, che perde la Coppa Intercontinentale contro l’Estudiantes, esce in semifinale in Coppa dei Campioni e finisce solo undicesima in campionato: solo il Pallone d’Oro che Best vince riesce a consolare i tifosi per l’annata sfortunata.

Poi avviene quanto annunciato e dopo ventiquattro anni Matt Busby abdica e diventa direttore generale. Lo United senza il suo vecchio timoniere inizia a perdersi e a vivere stagioni grigie, inconsistenti, in cui non s’intravede un progetto tecnico e i manager che si succedono sono schiacciati da una pesante eredità e un presente niente affatto semplice.

Durante questi anni il club si aggrappa con disperata forza alla Santissima Trinità, ma i tre Palloni d’Oro, anche se per ragioni differenti, non riescono più a garantire alla squadra lo stesso apporto di un tempo. Charlton, il più anziano, paga il logorio di tanti chilometri e battaglie e somiglia sempre meno al grande centrocampista che ha dominato gli anni 60. La frustrazione di vedere la squadra spenta e in crisi perenne lo allontana dalle altre due stelle, con cui entra in aperta collisione: da loro, più giovani di lui, si aspetta maggiore impegno e leadership, ma sia Law che Best non sembrano in grado di adempiere a questo compito.

Lo scontro è soprattutto con Best, che per età e talento dovrebbe essere il principale candidato a tenere in piedi la baracca, ma George non ha la forza mentale di Bobby, in grado di superare la tragedia di Monaco e di caricarsi sulle spalle il destino dello United nella sua ora più buia: Best semplicemente non possiede le stesse stimmate del leader e proprio per questo entra in contrasto con il suo capitano, che vorrebbe da lui la stessa dedizione e devozione per quei colori. 

Ma George non è Bobby, non può esserlo, perché l’irlandese non vive e respira per la squadra come lui e la sua vita extra sportiva lo sta consumando, esponendolo a un repentino declino fisico e psicologico a cui non sa opporsi.

Le prime difficoltà emergono subito dopo l’addio di Busby, che a differenza dei suoi successori non gli imponeva particolari compiti e ne lasciava libero l’estro, mentre le consegne tattiche che gli vengono di volta in volta assegnate dai nuovi manager non incontrano i suoi favori e vengono continuamente disattese e irrise. George è offeso da simili richieste, perché quelli come lui non possono essere imbrigliati in schemi e devono essere liberi di esprimersi come meglio credono per regalare spettacolo e divertimento, ma la sua concezione del calcio come singolo duello rusticano appare di colpo obsoleta: la fioritura del calcio olandese e l’affermazione continentale di squadre come l’Ajax e il Feyenoord costringono ogni allenatore a fare i conti con una nuova visione del calcio, più organizzato, con maggiori compiti specifici e sempre più sport di squadra.

Non bastano però i litigi e le polemiche con allenatori e compagni a spiegare cosa non va in George: da troppo tempo l’alcool a fiumi, le feste interminabili, le tante ore piccole (a volte piccolissime), le numerose donne e le spese folli non sono più appendici eccentriche di un fuoriclasse giovane e inarrestabile, ma distrazioni che lo stanno divorando mentalmente e fisicamente.

Lo strapotere tecnico di un tempo sta sbiadendo velocemente, così come i suoi dribbling fulminei, i tunnel irridenti, le raffinate aperture d’esterno, le martellanti corse verso la porta e le brucianti accelerazioni: tutto quel repertorio che lo ha reso il più brillante giocatore della sua generazione si è opacizzato e ora che la magia lo sta abbandonando è sempre più disinteressato al destino di una squadra in piena picchiata.

La stagione 72/73 è l’ultima a vedere insieme i tre palloni d’oro: il Manchester è un lontanissimo parente della squadra dominante di un tempo, stenta e sbanda per tutto l’anno, cambia due allenatori e si salva per miracolo dalla retrocessione.

Per la dirigenza può bastare: si decide di rifondare profondamente la rosa e sia Law, che Charlton vengono invitati a trovarsi un nuovo club, mentre su Best, appena ventisettenne, pende l’incognita del suo essere ormai inaffidabile. George salta gli allenamenti e sparisce per giorni, annunciando a più riprese di volersi ritirare dallo sport professionistico, per poi ritornare sui suoi passi e presentarsi al campo: è una scheggia impazzita, ma lo United è troppo povero di talento per rinunciare completamente a lui.

La Santissima Trinità giunge così al capolinea: Charlton si trasferisce al Preston North End e porta con sé il vecchio guerriero Nobby Stiles, mentre Law, dopo aver chiesto la benedizione di Busby, si accorda per un’ultima stagione con gli odiati cugini del City. Nella stagione 73/74 dei tre assi di un tempo resta solo Best, che però gioca poco e male, fino a che sparisce dai radar e non torna più: la sua ultima gara con i Red Devils è a Capodanno, poi fa perdere le sue tracce e la dirigenza non può che strappare il suo contratto. Quel poco che resta del suo talento imbolsito si trascinerà per qualche anno ancora in giro per il mondo, accendendosi sempre meno: ma chissà, forse a lui, ancora così disperatamente innamorato del pallone come quando giocava per le strade di Belfast, va bene così.

Il Manchester United è ormai allo sbando e implode definitivamente: un destino assai cinico e molto beffardo trasforma il vecchio eroe Law in carnefice quando un suo goal nel derby con il City condanna la sua ex squadra alla Second Division.

Mentre Law chiede bruscamente il cambio e i suoi vecchi tifosi inferociti invadono il campo, passano veloci i titoli di coda su di un’era bellissima che meritava una fine meno ingloriosa.