Raccontare la società neoliberale tramite il cambiamento climatico: Siccità di Virzì e Don’t Look Up di Mckay

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In una scena iconica di Siccità (2022), il carcerato Antonio (Silvio Orlando) attraversa a piedi il Tevere in secca. Montagne di rifiuti brulicanti di ratti e insetti riempiono lo schermo. Una coppia straniera, probabilmente mediorientale, risale il corso del fiume sotto una cappa di calore anomala. Lei, incinta, a dorso di un asino. La meta è ignota, ma una cosa è chiara: si scappa, si cerca rifugio dalla siccità, dal cambiamento climatico, dalla putrefazione apparentemente inesorabile delle istituzioni e del welfare, da una politica corrotta e da nuove generazioni che germogliano senza alcuna speranza nel futuro. In un’unica scena Virzì mischia riferimenti di maniera alla Sacra Famiglia, eletta a prototipo archetipo dei contemporanei migranti climatici, al cinema neo-noir di Roman Polanski in Chinatown (1974).

Nel film di Polanski, ambientato nella Los Angeles del 1937, l’investigatore privato Jake “J.J.” Gittes (Jack Nicholson) rimaneva invischiato in una losca vicenda che dall’infedeltà coniugale precipita rapidamente in omicidio e, d’intorno, alla narrazione del lato oscuro del New Deal roosveltiano. Attorno agli imponenti investimenti pubblici in infrastrutture dell’epoca si annidano ovunque corruzione e violenza. In particolare, l’avidità di un gruppo di interesse invischiato con la criminalità organizzata sta attentando all’acquedotto di Los Angeles, generando una siccità artificiale per facilitare la costruzione di un nuovo bacino idrico ad alto rischio. Tutto per gonfiare il valore di alcuni territori di loro proprietà.

Nella scena a cui allude Virzì, l’investigatore Gittes attraversa l’alveo di un canale in secca, dove un ragazzino malvestito a cavallo allude a misteriose piene notturne, segno dell’intrigo intessuto nell’ombra alle spalle dei cittadini di Los Angeles. È vero che in Siccità è il cambiamento climatico il “colpevole”, accompagnato da una gestione imprudente delle risorse. Tuttavia Virzì non tenta affatto di nascondere l’essenza politica della situazione disastrosa (e soltanto leggermente distopica) in cui fa muovere i suoi personaggi. La siccità del film non si riduce chiaramente all’assenza di acqua. Anche e prima di tutto si tratta dell’aridità emotiva di una società morente che, per distrarsi dall’imminente collasso, si abbandona al narcisismo dei social media, alla seduzione del mondo dello spettacolo, all’edonismo egoista e ad avventure extraconiugali che non reggono la prova del contatto non mediato da uno schermo. Ma nella Roma di Virzì, dove tre anni di mancate piogge hanno ingenerato la secca del Tevere – e una conseguente proliferazione di blatte, a sua volta vettore di un’epidemia di malattia del sonno – la responsabilità della politica corrotta, da un lato, e dello spadroneggiare dell’interesse economico privato, dall’altro, rimangono sempre in primo piano. La prima è rappresentata dal fantasma del presidente del consiglio “progressista” che appare nei deliri dell’esaurito platform worker Loris (Valerio Mastandrea). Nonostante venga gettata più di un’ombra sulla sua integrità di politico, il fantasma si vanta delle liberalizzazioni operate dal suo governo, che garantiscono a Loris la possibilità di essere un autista di Uber, e dei progressi nei diritti civili “a costo zero” utilizzati come giustificazione per la totale mancanza di riguardi per i diritti sociali e il trasformismo politico.

“Comunque, Loris, le liberalizzazioni le abbiamo fatte. E se adesso hai questa grande opportunità è grazie al mio governo. Mi dicevano pure che era una cosa di destra! Hai capito? E allora le unioni civili, la scuola? […] Adesso dobbiamo solo riorganizzare le forze. Una grande alleanza di tutti i progressi … e anche non progressisti. Soprattutto i non progressisti!”

La legge del più forte fatta valere dai detentori del potere economico è invece ben rappresentata nella vicenda della grottesca famiglia Zarate, che gestisce l’hotel Spa extra-lusso. In barba al razionamento idrico, la famiglia attira le ire dei manifestanti impotenti, continuando a riempire le proprie piscine e fontane con acqua pubblica a beneficio di un’élite di clienti facoltosi.

Il quadro è chiaro: da un lato una popolazione al collasso, abbandonata dalle istituzioni e le cui afflizioni vengono abilmente monetizzate da media feroci, selvaggiamente precarizzata sotto la pressione delle liberalizzazioni che aprono la strada al capitalismo delle piattaforme (oltre alla parodia di Uber, gli zaini azzurri dei rider di Deliveroo che fanno capolino in più di una scena), della privatizzazione di risorse essenziali e dalla crescente penuria di fondi per la sanità, l’istruzione e l’assistenza sociale. Popolazione sempre più multietnica, dove tuttavia l’integrazione è complicata dalla lotta per risorse scarse e dalla latitanza dello stato. Dall’altra parte, sapientemente sovrapposti, i politici corrotti, le élite economiche, il circo mediatico e il mondo dello spettacolo, completamente assorti nell’inerzia di un sistema avviato alla catastrofe. La rabbia giovanile, benché impotente e rassegnata, attraversa la sceneggiatura e mette in scena lo scollamento generazionale. Roma, infine, è mostrata quale simbolo di un paese, di istituzioni, di una classe politica, di apparati statali e di servizi essenziali allo sfascio. Si tratta, tutto sommato, di un mondo neofeudale, dove pochi baroni sembrano possedere sempre di più a discapito dei diritti della maggioranza, calpestando la legge e avviandosi verso una miope autodistruzione.

Tra la siccità (reale) della Roma virziniana e quella (artificiale) della Los Angeles di Chinatown i tratti comuni sono tuttavia molti, ed entrambi richiamano uno stato corrotto preda di potenti interessi privati che lo manovrano a proprio piacimento e per il proprio tornaconto, aggravando disuguaglianze già in aumento, depredando risorse essenziali e mettendo a rischio milioni di vite. D’altronde, anche l’ambientazione anni Trenta di Chinatown è aggiornata alla sensibilità e alle preoccupazioni degli anni Settanta, nel momento della transizione verso il modello neoliberista. Nel mondo appena distopico di Siccità l’insostenibilità del modello economico è caratterizzata dalle privatizzazioni e liberalizzazioni, piattaforme lavorative digitali che esauriscono i nervi di lavoratori e ne estraggono ogni grammo di produttività, senza peraltro lasciare loro le briciole necessarie alla “riproduzione sociale” della forza-lavoro. L’ansia dell’Uber driver Mastandrea, che teme di non svegliarsi mai più se solo cede al sonno, è simbolo sia di una condizione esistenziale che lavorativa. Egli teme di perdersi la prenotazione di un potenziale passeggero, assediato dalla concorrenza di centinaia di altri lavoratori della gig economy, vive sotto la costante minaccia dell’obsolescenza e dell’inadeguatezza della sua formazione e del suo ruolo genitoriale. Ma nemmeno il successo lavorativo salva dall’assenza di senso. «Quando siamo stati felici l’ultima volta?» chiede significativamente un medico in carriera (Claudia Pandolfi) all’ex-marito Mastandrea, in fin di vita per aver cercato di reggere sulle sue spalle lo scotto della produttività tardo neoliberista.

Rassegnazione provinciale e catastrofismo americano

Lo sguardo di Virzì e Giordano è emblematico del punto di vista italiano sul cambiamento climatico e le interconnesse sfide della contemporaneità (disuguaglianza, depressione economica, patologie mentali, diritti d’asilo). In una parola, rassegnazione. Si finge o di non vedere, chiamando esperti tecnici a rassicurare le folle ansiose di accaparrarsi l’acqua razionata, cercando di spingere la giostra ad un faticoso ultimo giro, oppure si accetta di andare a fondo, perdendo ogni speranza nel futuro e rifugiandosi nelle solite, consunte dinamiche che hanno causato la crisi.

Se confrontiamo Siccità con Don’t Look Up (2021) emergono differenze e somiglianze tra lo sguardo “provinciale” della reazione italiana alla crisi climatica con il più dinamico (ma non più ottimista) punto di vista americano. Nel film di Adam McKay la minaccia incombente di una cometa che sta per schiantarsi disastrosamente sulla Terra è soltanto un ovvio espediente per parlare di cambiamento climatico e della sua mancata gestione. Anche qui troviamo media completamente dominati dall’imperativo dello share, inservibile per un dibattito pubblico vagamente informato e anzi fucina di reazioni sguaiatamente negazioniste e irrazionali. Anche qui la rabbia inerme dal basso e dei più giovani, l’inadempienza al proprio dovere di tutela del pubblico interesse della classe dirigente, il carattere vuotamente promissorio della politica via social. Si aggiunge qui, significativamente, la fede incrollabile e quasi messianica nei guru e magnati dell’hi-tech della Silicon Valley, che, sulle tracce dei mobster che infestano la Los Angeles di Polanski, hanno gioco facile nel “catturare” e privatizzare un necessario intervento pubblico per sostituirsi ad esso e massimizzare i propri interessi, a discapito della sicurezza della popolazione e del principio di responsabilità. Se i cattivi di Chinatown erano pronti a sloggiare con la violenza agricoltori dalle loro terre, rese artificialmente sterili, e a mettere a repentaglio la sicurezza idrica di Los Angeles, la riuscita parodia di Steve Jobs (ma con tratti di Elon Musk) interpretata da Mark Rylance in Don’t Look Up fa pressione sul governo per privatizzare la missione di neutralizzazione della cometa, con l’ossequioso assenso della presidente USA Meryl Streep. La minaccia esistenziale per il genere umano viene così trasformata in un’inefficace iterazione della hybris dell’economia fossile ed estrattiva.

D’altronde, in caso di fallimento della cattura della cometa e sua messa a valore, per i ricchi e i potenti è riservato un biglietto per il paradiso, una via di fuga extraterrestre ed esclusiva su un nuovo pianeta dove ricominciare da capo. Senza tuttavia cambiare niente. Una mentalità “da fortezza” su cui negli ultimi decenni il cinema distopico ha giocato più volte, che divide i ricchi dai poveri e alza muri, sublimando l’intensificarsi di disuguaglianze e flussi migratori, alimentati dagli stessi cambiamenti climatici. Esattamente come nell’attico lussuoso di Valentina (Monica Bellucci) in Siccità, dove la diva e il paladino televisivo del risparmio, l’idrologo professor Del Vecchio (Diego Ribon), si concedono di riempire una jacuzzi per brindare ottimisticamente al futuro innalzamento del livello del mare («Ho sempre adorato Venezia!»).

Fa da sfondo sia a Siccità che a Don’t Look Up lo spettro dei momenti più bui della (perdurante) pandemia di COVID-19, con riferimenti a mascherine luride recuperate in fretta dal portaoggetti e gli ospedali al collasso in Siccità e al prezzo di cure “alternative” schizzate alle stelle in Don’t Look Up (quanto costa una pala?). Ma soprattutto a quello che il COVID-19 ci ha insegnato: che gli stati e i leader sono deboli, miopi e confusi, oggetto di facile “cattura” da parte di gruppi industriali di dimensioni senza precedenti e di mercati finanziari senza controllo, che l’informazione e la divulgazione scientifica non funzionano, che il dibattito pubblico è asservito a numero di like e al ritmo dei cicli elettorali.

Netflix vs. Amazon

Con Don’t Look Up Mckay torna così alla critica spietata della contemporaneità stancamente neoliberista dopo The Big Short (La Grande Scommessa), denuncia del marciume alle radici della crisi finanziaria del 2007-2008. Lo fa, in parte paradossalmente, con una produzione Netflix, gigante dell’intrattenimento 2.0 e stella (in declino) dell’ultimo grande sussulto del capitalismo digitale. Allo stesso modo, dietro a Siccità ci sono anche le lunghe dita di Amazon Prime. Non esattamente produzioni indipendenti, eppure entrambe colgono nel segno. Si tratta forse dell’ennesima incorporazione da parte del sistema della sua stessa critica? O forse, nell’inerzia miope della macchina capitalistica contemporanea, che sembra gettarsi senza criterio nel disastro ambientale e sociale, i meccanismi di mercato non permettono nemmeno di filtrare i prodotti più scomodi sotto la pressione del guadagno che porteranno? Forse, più banalmente, la difficoltà di immaginare un’alternativa non tanto al capitalismo in sé, quanto anche soltanto al modello capitalistico contemporaneo (il «realismo capitalista» fisheriano su cui giocano entrambe le opere), fa apparire la critica così velleitaria che non appare sensato nemmeno preoccuparsene. In ogni caso, sia la stanca inerzia provinciale della politica italiana, sia il dinamismo imprenditoriale statunitense trovano nelle due rappresentazioni filmiche lo stesso punto di incontro: la catastrofe, sebbene addolcita dai buoni sentimenti (i protagonisti di Don’t Look Up si abbandonano teneramente ad una cena familiare prima di essere spazzati via, Siccità chiude con una provvidenziale pioggia che accompagna alcune riconciliazioni e realizzazioni personali). Entrambi i film criticano l’ingerenza dell’interesse privato e delle grandi corporations nella gestione dell’emergenza climatica, in ogni caso ampiamente insufficiente, denunciando il grado di influenza che il potere economico può vantare su quello politico dopo decenni di politiche neoliberiste. Nessuno dei due film mostra una via d’uscita collettiva dalla catastrofe, ma soltanto meccanismi di coping o, al più, una sorta di ascesi intimista nella sventura e perdita di senso. È forse arrivato il momento propizio per volgere la critica distopica della società tardo neoliberista in una sua versione utopica.

Alessandro Volpi