Jeffrey Dahmer: la spiegazione del male nell’uomo

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Di recente, sulla popolare piattaforma streaming Netflix, è uscita suddivisa in dieci episodi la storia di Jeffrey Dahmer, il serial killer che, tra il 1978 ed il 1991, torturò, uccise, smembrò e cannibalizzò almeno diciassette adolescenti, incarnando tuttora, nell’immaginario collettivo, uno dei mostri più efferati e sconcertanti della storia del crimine. La miniserie creata da Ryan Murphy e da Ian Brennan, già affermati ideatori, non è stata pubblicizzata come è accaduto per altre fiction, ispirate a fatti reali, forse per una forma di prudente cautela nei confronti dei sentimenti delle famiglie delle vittime che già, in precedenza, avevano disapprovato la rievocazione “spettacolare” delle orrende imprese dell’assassino. La sceneggiatura della vicenda è gradevole, collocandosi a metà strada tra una “docuserie” ed una vera e propria fiction, spalmata in tematiche concettuali che abbracciano diverse dimensioni temporali, allo scopo di fornire un quadro completo dell’intera esistenza di Jeffrey.

Il cast appare all’altezza delle interpretazioni richieste ed, in alcuni spezzoni, sembra quasi di assistere ad un reportage giornalistico, con tanto di interviste dei personaggi realmente coinvolti nell’orribile e macabra storia. Particolarmente riuscita, a mio avviso, è la scelta di Evan Peters, nei panni del protagonista, che ben riesce a calarsi nei panni dell’infelice Jeffrey, dalla tormentata adolescenza disfunzionale fino alla mostruosa consapevolezza omicida dell’età adulta.

Gli omicidi

Come abbiamo detto in apertura, Jeffrey Dahmer, uccise con ferocia diciassette giovani, di cui quindici accertati, scegliendoli in prevalenza tra i ceti sociali meno agiati, in un ambiente dove poteva far passare inosservati i propri desideri innaturali di cannibalismo e di necrofilia. La rievocazione televisiva tende a fare chiarezza sugli omicidi, evidenziando la scarsa attenzione delle istituzioni nei confronti di una parte della comunità cittadina, vittima di un atteggiamento razzista persistente e della grande incompetenza della polizia. Questi due elementi si riveleranno decisivi per comprendere come un alcolista psicopatico, con dei precedenti penali alle spalle, abbia potuto seguire i propri impulsi omicidi e diventare uno dei serial killer più famosi degli Stati Uniti.

La serie televisiva ha inizio proprio dalla sera del 1991 in cui Jeffrey Dahmer viene arrestato. Il mostro adesca in uno dei locali gay, che solitamente frequenta, quella che sarebbe stata la diciottesima vittima, almeno secondo i suoi successivi racconti e le ricostruzioni degli inquirenti. Lo sfortunato ragazzo, Tracy Edwards, in un modus operandi che si rivelerà comune anche ad altri omicidi, viene attratto dall’illusione di poter prestare un servizio fotografico intimo e remunerato. L’incontro si trasforma presto in un incubo, quando Tracy  si accorge che il padrone di casa ha intenzione di ucciderlo, riuscendo a scappare e denunciandolo alla prima pattuglia della polizia incrociata in una delle strade adiacenti. I poliziotti, non molto convinti della veridicità delle parole del giovane, compiono, comunque, un sopralluogo, trovando nell’appartamento di Dhamer i resti umani di crimini che superano qualsiasi immaginazione. L’assurdo spettacolo che viene trovato nel tugurio supera qualsiasi fantasia da film horror: teschi, organi sciolti in un bidone di acido, altri organi chiusi nel frigorifero, soprammobili ricavati da ossa, nonché la sconcertante scoperta di carne umana in pentole ed in piatti, segno inequivocabile, come confermerà lo stesso assassino, del gusto per la cannibalizzazione.

A questo punto i poliziotti, tante volte chiamati inutilmente da una solerte vicina di casa del mostro, oppressa dalla puzza che proveniva dall’appartamento degli orrori e spaventata da tante grida nel cuore della notte, devono prendere atto della vita segreta di quell’inquilino strano e sempre ubriaco. Dal momento dell’arresto, la narrazione torna indietro e, con l’utilizzo di flashback e flashforward, cerca di ricostruire la storia del protagonista sotto molteplici punti di vista. Il momento cruciale dell’arresto non si può comprendere, se non si ripercorre il passato di Jeffrey, coni suoi difficili rapporti con la famiglia e la non accettazione della propria omosessualità, sublimata tragicamente nella ricerca spasmodica di un bel corpo maschile “da possedere”, mediante efferati omicidi e l’orrenda pratica dell’antropofagia. Cercare di comprendere le motivazioni dell’operato di Jeffrey è un’impresa troppo ambiziosa e quasi impossibile, come reciterà qualche battuta della stessa fiction, ma nello stesso tempo consente di addentrarsi negli abissi dell’animo umano, spingendosi fino al limite della più oscura  devianza.

Jeffrey Dahmer: dall’infanzia all’età adulta

Chi era in realtà Jeffrey Dahmer? E se il sistema istituzionale americano avesse funzionato, gli sarebbe stato possibile commettere così tanti esecrabili omicidi? Questi, in realtà, sono i due interrogativi sui quali gli spettatori sono invitati a riflettere.

Le notizie biografiche relative all’infanzia del reale Jeffrey Dahmer sono abbastanza discordanti. Nato il 21 maggio 1960 a Milwaukee da Lionel Herbert Dahmer di origini tedesche/gallesi, all’epoca ancora studente universitario di chimica e da Joyce Annette, esperta in telescriventi (origini irlandesi e scozzesi), per alcuni visse un’infanzia tranquilla fino all’età di sei anni, quando si ammalò per una grave forma di ernia inguinale, per altri fu vittima degli abusi di un vicino di casa che lo violentò più volte. Come sottolinea la stessa serie Netflix, Jeffrey visse in un clima familiare molto teso, trascurato dal padre spesso assente per i suoi molteplici impegni accademici e dalla madre, ipocondriaca e depressa, che costantemente si auto- commiserava e si imponeva trattamenti farmaceutici invasivi ed inutili. Anche la nascita del fratellino David non riuscì a rallegrare la vita di Jeffrey, mentre la madre riversò tutte le saltuarie lucide attenzioni su di lui.

All’età di 8 anni, il futuro mostro cominciò a raccogliere i resti di animali morti, che seppelliva nel bosco vicino alla casa dei genitori nella località di Bath Township in Ohio. Negli anni successivi iniziò a nutrire una vera e propria passione macabra nei confronti delle carcasse di animali, favorito dal padre, orgoglioso di quella che credeva fosse “curiosità scientifica” da parte del figlio. Verso i tredici anni pian piano sviluppò fantasie sessuali dove immaginava di unirsi a persone morte, subendo atti di bullismo a scuola per l’eccessiva stranezza del suo atteggiamento caratteriale. Quando raggiunse la pubertà, Jeffrey si accorse di essere omosessuale, ma decise di tenere nascosta la propria preferenza ritenendo, forse a giusta ragione, di poter essere discriminato dal machismo apparente ed ostentato della provincia americana. Alle problematiche di carattere sessuale, si aggiunse il consumo eccessivo di bevande alcoliche, anche nelle ore diurne. Quando i genitori decisero di divorziare, la madre si trasferì con il figlio minore a Chippewa Falls, mentre Jeffrey rimase con il padre, ancora troppo assente e poco incline a comprendere il disagio interiore del figlio che cresceva giorno dopo giorno sempre di più.

La carriera omicida di Jeffrey cominciò nel 1978, così come racconta la serie Netflix. Nel 1978 incrociò uno sfortunato autostoppista diciannovenne che convinse a seguirlo nella casa dei genitori rimasta vuota. Qui lo fece bere, ascoltando musica, poi lo uccise colpendolo con un pesante manubrio e soffocandolo. Appena dopo l’omicidio, Jeffrey spogliò il corpo del ragazzo, gli si mise cavalcioni e si masturbò su di esso, realizzando per la prima volta le sue fantasie perverse con un cadavere.    Di seguito smembrò il corpo, disciogliendone nell’acido alcuni pezzi di carne e frantumandone le ossa con una mazza da baseball. In questo modo mise in pratica su un essere umano quanto aveva già ampiamente sperimentato con i resti dei poveri animali. Il giovane Dahmer iniziò ad accumulare un insuccesso dopo l’altro: fu prima espulso dall’università dopo appena tre mesi dall’iscrizione, poi, arruolatosi nell’esercito, dove prestò servizio come soccorritore militare, al secondo anno sotto le armi fu congedato per alcolismo. Peraltro in quel periodo, proprio dove lavorava Jeffrey, scomparvero in circostanze misteriose due ragazzi. Rientrato negli Stati Uniti, nel 1981, suo padre lo mandò a vivere con la nonna a West Allis e qui, per un certo periodo di tempo, sembrava che la vita di Jeffrey si stesse normalizzando, anche se spendeva tutto quello che guadagnava come flebotomo in alcolici e sigarette. 

Pur continuando a coltivare le proprie ossessioni, smembrando animali morti, come racconterà lui stesso, per alcuni anni riuscì a dominare la propria passione omicida. Jeffrey, nei primi anni Ottanta, intensificò la frequenza dei bar gay, ma si sa poco circa la sua attività sessuale, che probabilmente non riusciva a praticare in maniera sana. Nella fiction si nota come lui cercasse, durante gli incontri intimi, l’immobilità dei partner, infastidendoli e provocandone l’immediata separazione. Nel settembre del 1987 Jeffrey riprese ad uccidere: prima un ragazzo di origini finlandesi nell’Ambassador Hotel di Milwaukee, poi un quattordicenne nativo-americano ed un ventiduenne, questi ultimi a casa della nonna, dalla quale venne allontanato a causa del suo stranissimo comportamento e dei cattivi odori provenienti dalla cantina. Su questo aspetto, la ricostruzione televisiva lascia libera l’immaginazione dello spettatore di valutare quali siano stati i reali sospetti del padre e soprattutto della nonna che forse volutamente scelse di non vedere le orribili azioni del nipote. Jeffrey si trasferì in un piccolo appartamento di Milwaukee, non lontano dalla fabbrica di cioccolata dove lavorava.

Dopo qualche settimana, adescò un tredicenne laotiano con la scusa di pagargli 50 dollari per un servizio fotografico. Il ragazzo riuscì a sfuggire e a denunciarlo alla polizia. Dahmer fu arrestato ed accusato di violenza sessuale. Ed ecco che emerge una delle tante incongruenze del sistema: nonostante l’incarcerazione richiesta dall’accusa, il giudice fu eccessivamente indulgente, comminandogli la pena di soli dieci mesi presso un ospedale psichiatrico. Appena dopo aver scontato la pena, tornò a casa della nonna e commise un altro efferato omicidio. Nella primavera del 1990 Dahmer cambiò ancora una volta casa, arrivando nella fatidica 924North 25th Street. Qui la sua attività omicida subì un’intensa accelerazione, massacrando nell’arco più o meno di un anno, tra giugno 1990 e luglio 1991, ben dodici ragazzi con le stesse modalità adoperate in precedenza. Dahmer non fu mai scoperto dalla polizia, nonostante le continue lamentele dei vicini e nonostante il tentativo di fuga del laotiano Konerak  Sinthasomphone, fratello minore del ragazzo che Dahmer aveva adescato e molestato anni prima. L’assassino riuscì a persuadere i poliziotti intervenuti che il ragazzo fosse il suo fidanzato e che avesse 19 anni (non i 14 effettivi). Gli agenti, entrati nell’orribile appartamento di Dahmer, non si accorsero dei resti dei cadaveri sparsi un po’ ovunque, lasciando il giovanissimo laotiano al proprio indicibile destino. Come si vede nella fiction, nei riguardi dei due poliziotti, fu in seguito preso un provvedimento di sospensione, ma poi essi furono reintegrati ed addirittura promossi.

Dai report degli inquirenti, aiutati dal fatto che l’assassino conservava i documenti di ciascun ragazzo ucciso, risultò che le vittime di Dahmer erano adolescenti o giovani  di etnia afroamericana od asiatica, spesso con piccoli precedenti penali e di condizioni sociali modeste. Ciò rivela una certa lucidità nel modus operandi del mostro che, in determinati ambienti, riusciva con successo ad adescare ragazzi fingendosi un fotografo in cerca di modelli o, semplicemente, proponendo loro rapporti sessuali. La maggior parte delle vittime fu strangolata, dopo esser stata narcotizzata, mentre soltanto una, tra quelle accertate, fu pugnalata. Jeffrey arrivò ad iniettare nel cervello degli sfortunati e malcapitati giovani sostanze corrosive come l’acido muriatico o l’acqua bollente, mediante appositi fori trapanati nel cranio, con il folle scopo di creare morti viventi o zombies, personaggi molto diffusi negli horror movie di serie b negli anni Ottanta, che tanto affascinavano la perversa mente del criminale.

Il processo

La fiction riporta pressoché fedelmente la veloce vicenda processuale di Dahmer che si consumò nel 1992. Egli dovette rispondere di 15 capi di imputazione (per le restanti due vittime le prove furono ritenute insufficienti) davanti alla Corte, presieduta dal giudice Laurence Gram. Jeffrey fu condannato a scontare 15 ergastoli, mancando nel Wisconsin la pena di morte, nonostante il suo avvocato avesse invocato l’infermità di mente, che gli avrebbe consentito di evitare il carcere, con un ricovero a vita presso un ospedale psichiatrico. Dopo la condanna, Dahmer fu condotto nel Columbia Correctional di Portage, dove all’iniziò ostentò tracotanza ed indifferenza, suscitando l’astio degli altri detenuti e poi si convertì al Cristianesimo, dimenticando troppo rapidamente che negli anni precedenti aveva subìto il fascino di Satana, al quale aveva perfino costruito un altare nella vecchia casa della nonna.

Nell’estate del 1994 Jeffrey subì l’aggressione di un detenuto che tentò di tagliargli la gola, a seguito della quale gli fu offerta la possibilità di essere trasferito in isolamento. Dahmer rifiutò, affermando di essere pronto a ricevere qualsiasi punizione che il destino gli potesse riservare. Alla fine di novembre dello stesso anno fu aggredito da Christopher Scarver, un detenuto ossessionato dalla religione ed affetto da schizofrenia. Tale aggressione lo porterà alla morte, per trauma cranico, durante il trasferimento in ospedale. Alcuni giornalisti riferirono che il suo cervello fu asportato e conservato per studi scientifici; per altri, invece, come si vede nella serie televisiva, il cervello del mostro fu distrutto su pressioni del padre e dei familiari delle vittime. 

Jeffrey Dahmer nell’immaginario collettivo

La recentissima serie Netflix introduce anche il controverso tema dell’idealizzazione della figura di Dahmer da parte di alcuni gruppi di sedicenti ammiratori o la strumentalizzazione letteraria e cinematografica della sua misera esistenza. Negli ultimi episodi della serie, il mostro diventa il personaggio di una serie di fumetti, fatto che indigna fortemente i familiari delle vittime. Peraltro, nella realtà, nel 2012 è stato pubblicato il romanzo a fumetti My friend Dahmer da parte di Derf Backderf, in cui l’autore narra le sue esperienze come compagno di classe del futuro assassino. Durante il periodo di incarcerazione, Jeffrey riceve lettere di numerosi ammiratori ed ammiratrici, alcuni dei quali gli inviano dei soldi, per poter continuare la macabra ed affascinante corrispondenza con il mostro. Jeffrey Dahmer finisce con il diventare un eroe dell’orrore, come i personaggi inventati di Michael Myers del ciclo cinematografico Halloween o Freddy Krueger della saga Nightmare.

A partire dagli anni Novanta, Jeffrey diventa pure quasi un’icona della musica death metal e similari. Nel 1998 il gruppo doom metal di nazionalità giapponese, Church of Misery, include nella prima raccolta, il brano Room 213 (Jeffrey Dahmer), mentre due anni dopo la band grindcore Macabre gli intitola addirittura un album ispirato alla sua vita. Nel 2007 la band death metal/deathcore Whitechapel presenta un testo con una citazione dell’intervista del mostro. Ed, inoltre, il criminale viene menzionato da numerosi rapper come Mac Miller, Eminem o Salmo.

Ha fatto molto discutere l’intervista che Jeffrey Dahmer, alla presenza del padre Lionel, rilasciò al giornalista televisivo Stone Philips poco tempo prima che morisse. Si tratta di una sorta di intervista-confessione che ha poi costituito la base di partenza per tutte le successive speculazioni ed elucubrazioni degli psichiatri, dei sociologi e degli antropologi per spiegare la natura e l’origine delle sue nefandezze. Dahmer negò qualsiasi tipo di responsabilità dei genitori e del tipo di educazione ricevuta, affermando che le ragioni delle sue azioni dovevano essere ricercate nelle sue pulsioni sessuali e nel fatto che aveva abbandonato la fede cristiana. Al riguardo molto significativa è la risposta che diede il criminale, quando il giornalista gli chiese come mai avesse avvertito il rimorso, solo dopo la conversione: “Sono convinto che, se uno non crede nell’esistenza di Dio che gli chiederà conto delle sue azioni, allora perché dovrebbe comportarsi bene”. A ben guardare questa stessa frase dimostra un approccio religioso soltanto fideistico e superficiale, in quanto scevro da ogni forma di empatica solidarietà nei confronti  delle vittime.

Spiegare il male: psicologia ed esoterismo

Cercare di comprendere le motivazioni che abbiano spinto Jeffrey Dahmer  a compiere azioni così raccapriccianti è un’impresa quanto mai ardua se non addirittura impossibile. Qualsiasi tipo di risposta o di spiegazione non può che rappresentare una supposizione frammentaria ed approssimativa. L’estenuante tentativo di dare un senso al “male” ha tormentato i pensatori di ogni epoca a partire dall’età classica.     Nel contesto socio-culturale di Dahmer, medio borghese ed impregnato di religione cristiana, seppure in una delle declinazioni del variegato universo protestante, il male viene spiegato come allontanamento da Dio, l’unico Essere onnipotente, grazie al libero arbitrio concesso al genere umano.

Le azioni malvagie dell’uomo, tuttavia, a parte la complessa dottrina del peccato originale, secondo la mitologia cristiana, sarebbero pilotate da una creatura che racchiuderebbe in sé ogni iniquità, Satana/Lucifero, il più fulgido degli angeli, ribellatosi per superbia alla grandezza di Dio. Nel caso specifico della vicenda di Jeffrey Dahmer, pur ricorrendo di tanto in tanto a simbologie sataniche, come il già citato “altare” allestito in onore del diavolo, un’eventuale adesione ad una fede teista di carattere satanico appare poco plausibile o, al limite, del tutto marginale. Lo stesso criminale, nella sua intervista prima di morire, afferma di “non aver mai odiato nessuno”, facendo intendere di non essere mai stato guidato da alcuno scopo ideologico o metafisico. La simbologia satanica utilizzata da Dahmer appare, semmai, più vicina a certi gruppi del “satanismo acido”, così come emergono in alcune narrazioni letterarie e cinematografiche prettamente di massa, senza alcun vero legame con il personaggio del diavolo dell’ambito mistico-religioso.

Più volte nella serie Netflix emerge come Jeffrey fosse ossessionato dal cinema horror, in particolare dal celebre film L’esorcista, le cui immagini, con ogni ragionevole probabilità, si sovrapponevano alle insane fantasie di smembramento e di necrofilia. È stato scritto che Dahmer avesse maturato la convinzione di essere egli stesso  la personificazione di Satana. Ma il giovane non aveva nessuna conoscenza dottrinaria in merito ed un’eventuale immedesimazione del genere, con tanto di orpelli e di rituali, deve essere letta come un’auto-giustificazione sociale delle proprie azioni, influenzato dall’ambiente familiare e soprattutto dalla religiosità tradizionalista della nonna.  Pertanto, l’origine delle sue perversioni deve essere ricercata all’interno del suo inconscio.

Sarebbe anche troppo semplicistico escludere la responsabilità dell’ambiente familiare ed educativo in maniera totale ed apodittica, con la considerazione che aberrazioni simili si manifestano, per fortuna, soltanto in pochissimi individui, nonostante un notevole numero di bambini e di adolescenti debba fare i conti con un’esistenza difficile e tormentata. Tale riflessione potrebbe portare alla conclusione che certi individui nascano così…affetti da un’insana malvagità, come se fosse un marchio indelebile. Alcuni studiosi, molto saggiamente, nell’impossibilità di determinare con esattezza la causa di certe pulsioni, in una scienza così complessa e poco tassonomica come la psichiatria, sostengono che i comportamenti umani derivino sia da una predisposizione genetica che dalla formazione emotiva ed educativa durante la prima fase della vita. Quanto incidano proporzionalmente i due diversi fattori nella formazione della personalità di un bambino o di un adolescente sarebbe una variabile incerta da caso a caso.                       

La vivisezione degli animali lo legava al padre e con il tempo quella pratica gli sembrò il mezzo più adeguato per legare a sé una persona che gli piaceva e di cui temeva l’abbandono. Questo è un motivo che ricorre di frequente nella fiction, in un contesto contraddistinto dalla solitudine e dall’alcool, molle straordinariamente capaci di spingere il giovane verso l’abisso più profondo. In carcere a Jeffrey viene diagnosticata anche la splancnofilia, cioè l’attrazione sessuale verso viscere ed organi interni, in particolare nei confronti della loro luminosità. Nelle persone cosiddette “normali” la rottura o lo scoppio di organi producono disgusto e repulsione, mentre in figure che possiedono il “codice” di Dahmer inducono all’eccitazione sessuale.

Tanti sono i dubbi che affiorano dall’analisi complessiva dei crimini commessi da Jeffrey Dahmer. Cosa sarebbe successo se la sua formazione fosse avvenuta in un altro ambiente, se non fosse stato lasciato continuamente da solo o se fossero state individuate in tempo le sue aberranti inclinazioni? A tale proposito, molto significativa è la confessione del padre alla sua nuova compagna sul fatto che egli stesso da giovane avesse nutrito fantasie omicide. Ma la donna gli fa giustamente notare che tra le fantasie e le azioni reali vi è un’immensa differenza: Lionel era, comunque, riuscito a tenere a freno i propri impulsi, che con il tempo erano scomparsi fino ad essere assorbiti in un’esistenza ordinaria. D’altra parte, non sembra azzardato affermare che se il sistema sociale e giudiziario americano avesse funzionato, tanti ragazzi non sarebbero morti, giovani vite che si possono considerare vittime dirette del “mostro”, ma anche indirette di un’Amministrazione burocratica distratta, partigiana e ancora intrisa di pregiudizi di genere e razziali.Jeffrey Dahmer  non è un semidio degli inferi, una sorta di personaggio leggendario creato per esorcizzare le nostre paure più profonde, ma un uomo qualsiasi che sviluppa un “codice” individuale raccapricciante, volto soltanto al soddisfacimento delle proprie insane pulsioni, che diventano per lui l’unica ragione di vita. 

Come ha affermato Carl Gustav Jung, “Finchè non renderai cosciente l’inconscio, questo dirigerà la tua vita e tu lo chiamerai destino”.