Di passo in passo

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“È nella natura dell’uomo di formare dei desideri, di vederli compiersi e di formare subito nuovi, e così all’infinito. È anche necessario, per il benessere e la felicità dell’uomo che il passaggio dai desideri al soddisfacimento e da questo a un nuovo desiderio sia rapido, perché il ritardo nel soddisfacimento del desiderio procura sofferenza e l’assenza di desiderio è quel languore sterile che si chiama noia”.

Non sono d’accordo con Schopenhauer. L’uomo non passa di desiderio in desiderio, bensì di fine in fine.

Terminare la lettura d’un libro è finire con la fine di quello, far tacere quella complicità silenziosa. Ancor più definitiva è l’ultimazione della lettura di tutti i libri che uno scrittore ebbe l’avventura di scrivere in vita, di quell’autore che fu caro, e che or tacerà per sempre, e non potrà offrire più nulla. Come perdere un amico fedele e segreto. Resta lo sgomento.

È una separazione definitiva, come quella che divide da un grande amore che non si rivedrà mai più, l’allontanamento dalla persona con cui si spartirono momenti irripetibili e magici, misteriosi ed esaltanti, e gli ingenui tesori del mondo, e che ora s’imbarca su un aereo di cui non si conosce neanche la destinazione.

Lea Contestabile, Il paese dei destini incrociati, 320 ritratti a mezzo busto scattati dal padre negli anni 40/50 ad Ortucchio. L’installazione ha dimensione variabile, 2001

Si va di cancellazione parziale in cancellazione, di quando in quando definitiva, negli abissi della vita che non perdona. Perché non esiste la fine, ma solo lo stillicidio di vite senza ritorno, dense di affetti, di emozioni, di vicende e di cure, di nostalgie all’insegna della caducità.

Si scopre una delizia per il palato, un cibo dal gusto così intenso che i sensi si inebriano e le papille si destano tutte insieme fino a raggiungere la parte della mente che governa la fantasia e custodisce i neuroni del godimento più ebbro e anarchico. A fine pasto, quelle sensazioni si dilegueranno. Si riconquisteranno, forse, un giorno, ma intanto sono colpevolmente responsabili di aver disinibito degl’immacolati ignoranti, rimasti orfani di profumi e sapori e colori evaporati nella loro silenziosa e inaffidabile fine, considerata passeggera, perché si ha idea che presto si riedirà a quella mensa, dove si rinverdirà quel cuoco e quella prelibata pietanza sarà di nuovo imbandita. Erroneamente, perché quella piccola morte è stata definitiva.

L’uomo si illude che sarà possibile una rinascita, una resurrezione (non tornerà mai quel momento, o comunque non sarà mai identico, non si ripeteranno quelle stesse condizioni, ogni istante è irrispettosamente e impietosamente unico), ma non ci sarà una rifioritura – per lui, solo per lui.

Si pensa di poter ricostruire il mondo, di poterlo indirizzare verso i propri desideri, al contrario lo si costella di presunzioni e delusioni, di vanità e di superbie, di conquiste e di esaltazioni.

Giorgio Ortona, Qui non metto la firma, olio su tela incollata su tavola, 37×29,2, 2019

I tempi si compiono nell’infinito succedersi di distacchi inevitabili. Tutta la vita è un’assurda rincorsa di perdite, di abbandoni, l’uno dopo l’altro. Non più quel profumo, non più quel sapore, quella felicità immensa che non si immaginava si potesse compiere per sé e solo per se stessi.

Beneficiario di piccole morti, fortunato esattore di deliqui, di concessioni e grandi promesse, baciato dall’ambrosia di grandi speranze, spettatore non pagante di prodigi, l’uomo assiste al morire delle felicità e quando abbraccia gli sprazzi del fuoco della gioia e della passione e quando condivide l’assoluto donarsi dell’amore e gode dell’estrema sensuale estasi e dell’abbandono ultimo d’una scrittura, d’un gesto, d’un gioco, d’una nota, d’un fiore, non si accorge di essere sepolcro vivente, rifugio estremo, velenosa pianta carnivora, dio della morte che gli dei degli eterni invidiano.

Aurelio Bulzatti, Donna in strada, olio su tela, 160×120, 2012

Mi accade, nel trascrivere queste riflessioni, di udire in mente le note gioiose del Bel Danubio blu, An der schonen blauen Donau di Strauss*. Nelle note di quella ripresa melodica esplosiva e gioiosa ho avvertito l’essenza struggente e malinconica d’un sentimento che, nell’affidare il suo essere per sempre al ricordo musicale, si contraddice e svela la sua verità ultima consistente nel tradurre la fine di un’epoca, di un’aristocrazia dallo sguardo sgomento. Il valzer è la struggente e festosa accoglienza d’una sconvolgente consapevolezza, turbinio dell’abbandono, vortice che risucchia nell’abisso, ultima danza figurata dell’ultimo giro della vita.

Quando ho cantato per l’ultima volta?

Quando ho ascoltato la mia voce ritentire del sentimento più pieno della libertà della passione che si sprigiona nell’aria, per raggiungere l’infinito degli orizzonti?

Cantare è sempre un determinare, è sempre descrivere e assistere il cuore e ammonirlo di ciò che avverrà: l’ultima strofa musicale in cui per sempre la voce tacerà, e il cuore, colmato, riempirà di sé la fine della canzone.

Come tutto finisce, anche questa riflessione ora giace tra le braccia del lettore, in cui si esala l’ultima parola: a Dio.


*L’aria di Johann Strauss jr. fu composta per il carnevale del 1867, dopo la sonora sconfitta subita dall’impero asburgico ad opera dei prussiani. Il testo di Weyl non nasconde questa condizione di depressione del momento:

Viennese sii felice! Oho, perché? Basta guardarsi intorno!
Vi chiedo, perché? C’è un barlume di luce. Ma non vediamo ancora niente,
Ah, Carnevale è qui! Ah, bene bene, anzi! Sfidiamo questi tempi,
Cielo, questa età. Buio della depressione. Ah questa sarebbe la cosa migliore da fare!
A cosa servono i rimpianti. I lutti. Meglio essere felici e stare allegri.