Arte, capitalismo e salute nell’era dei Dpcm

La seconda ondata della pandemia, in Italia, ha portato alla pubblicazione di quel discriminante Dpcm del 24 ottobre in cui si dichiarava letteralmente inessenziale l’intero settore artistico. Da allora i Dpcm si susseguono, i governi cambiano e l’arte langue, ancora. Del resto già durante il lockdown precedente quello artistico era stato il settore che aveva subito il fermo più lungo, pur essendo risultato, dati alla mano, quello meno coinvolto nella diffusione del contagio.

C’è, all’origine degli altalenanti fermi, la necessità di arginare il diffondersi del virus, ma sicuramente anche un evidente capovolgimento dei valori. Arginare la pandemia, limitare i contagi e dunque per forza di cose i contatti, significa, dovrebbe significare, assumere la vita come valore assoluto, tutelare la salute; è lo Stato infatti a doversi fare garante del benessere collettivo dei cittadini. La tutela della salute dovrebbe però non fermarsi al mero concetto di assenza di malattia, si tratta di qualcosa di ben più ampio che include il benessere psicologico-emotivo e quello sociale. L’uomo è composta da una struttura fisica ed una psicologica che concorrono entrambe alla funzionalità dell’organismo, ma l’uomo è anche un animale sociale pertanto nel concetto di salute è incluso anche il benessere sociale. Di tutto questo, di questo fondamentale diritto alla salute in senso pieno, del benessere della mente e dello spirito nonché dello stretto legame che intercorre tra salute e società, non si tiene minimamente conto nelle scelte attuate per gestire la pandemia.

Le scelte sottese alle decisione governative rispondono a tutt’altra logica che ben poco ha a che fare col rispetto della vita, sono scelte che rispondono piuttosto ad una logica capitalistica secondo la quale c’è sempre qualcuno di sacrificabile in nome di interessi più grandi. Durante il mese di ottobre purtroppo si era giunti al punto in cui la situazione sanitaria era al collasso, la nave stava affondando e bisognava sacrificare qualcuno, chi se non i passeggeri dell’ultima classe? Sacrificare qualcosa sembrava inevitabile e si è deciso che quello artistico-culturale fosse un settore superfluo, si è deciso di offendere gli operatori del settore nella propria dignità lavorativa, si è scelto di salvaguardare il profitto e sospendere, quando non fermare definitivamente, il settore meno produttivo in tal senso, si è scelto, secondo la logica del mercato e non secondo quella della limitazione della diffusione del contagio, il settore che più di tutti si è impegnato nel rispetto pedissequo dei protocolli, si è, con ciò, deciso di circoscrivere il concetto di salute a quello limitatissimo di salute fisica. L’importante era ed è preservare i luoghi di consumazione di massa e lasciarli sempre aperti per soddisfare ogni bisogno. Quanto poi questo possa avere un’effettiva utilità al fine del calo dei contagi non si è perso tempo a chiederselo. Ed eccola qui la natura intrinsecamente criminale del capitalismo: decide chi deve vivere e chi deve morire, da sempre. In una società equa non ci dovrebbero essere classi sociali o categorie di lavoratori sacrificabili, non ci dovrebbe essere ricatto tra salute e lavoro, tra vita e reddito, ci dovrebbero essere cure per tutti e risorse economiche per tutti, non dovrebbe essere nemmeno contemplabile una condizione che non permetta una dignità di vita per tutti ed invece è data come presupposta. È un lampante segno d’iniquità sociale affondare certe categorie a tutto vantaggio di altre, tutelare le multinazionali e distruggere gli ultimi, è un insulto alla dignità di un enorme classe di lavoratori e lavoratrici ed a tutte le risorse umane ed economiche cui hanno attinto per sopravvivere ai mesi passati, decidere che siano concessi grandi assembramenti di massa purché funzionali alla ben nota logica del produci-consuma-crepa mentre pochi spettatori distanziati a teatro, un paio di danzatori a lezione, performance musicali piuttosto che recitate con ingressi contingentati, accessi limitati ai cinema o alle mostre, magari su prenotazione, siano veicoli di contagio; è e sarà sempre fallimentare una società che tende ad acuire il divario economico-sociale e la concentrazione delle risorse piuttosto che la socializzazione di esse ed il mutualismo.

E così, in questo triste scenario, l’arte e la cultura restano agonizzanti, in bilico tra la vita e morte, quando mai come ora, proprio di arte e cultura ci sarebbe bisogno, non per svagarsi, come troppo spesso ed erroneamente è stato lasciato intendere, ma per aprirsi ad una visione nuova, ad un modo di pensare e sentire diverso, per non soccombere alla paura, per mantenere vivi il sogno e la speranza, la percezione di un altro mondo possibile, perché quel distanziamento che è stato ignobilmente definito sociale non lo diventi sul serio, lasciandoci sempre più soli, per restare umani, quando molto poco di umano sembra sopravvivere attorno, per sentirci vivi, perché niente come l’arte insegna a combattere contro la morte.

Nelle modalità adottate per arginare la pandemia dunque si ripropone un capovolgimento dei valori ampiamente introiettato in cui al vertice non c’è la vita, ma il profitto ed in cui le decisione politiche di fatto tendono a salvaguardare questo innanzitutto. E’ chiaro quindi che questa sia la logica alla base del fermo dell’intero ambito artistico. La società capitalistica è una società repressiva: reprime i sogni, i desideri, la libertà, gli istinti vitali, dunque può fare a meno dell’arte, è una società in cui l’uomo è svilito a mezzo di produzione e dunque è chiaro che possa classificare con leggerezza l’arte come inessenziale. Il piacere contemplativo, il godimento estetico, l’appagamento creativo dell’arte sono non mercificabili in linea di massima, non rispondono alla necessità di reiterato consumo cui dobbiamo tutti assoggettarci, aiutano a perseguire i sogni, i bisogni d’appagamento non materiali, il benessere in senso pieno e dunque non servono. Il consumo, la produzione sono i valori assoluti e la pandemia lo ha confermato, dichiarando superflua l’arte che avvicina invece all’autenticità della vita, dello stare assieme, al fruire del bello.

Le nostre vite si sono adattate all’introiezione di questo modello in cui i sogni sono dimenticati, in cui lo spazio di autenticità di cui l’arte si fa custode, quel sacrosanto spazio intellettuale, culturale, sociale di verità, di non alienazione, sono un di più, qualcosa di non necessario, perché rispondenti a esigenze di cooperazione e non di competizione, perché mostrano l’importanza dell’essere per gli altri e con gli altri, anche ed a maggior ragione in un regime di necessario distanziamento fisico, perché mostrano che il benessere individuale e quello collettivo si implicano a vicenda e che se è giusto sacrificare i propri interessi al bene collettivo nella ferma consapevolezza che le scelte del singolo si ripercuotano inevitabilmente sulla collettività, sarebbe forse il caso di rendersi consapevoli che è vero anche il contrario e che la collettività è responsabile per i singoli, per ogni singolo che non ce la farà, perché è sempre una questione di vita o di morte.

Mentre i Dpcm reiterano di fatto l’abuso alla base del sistema dominante e lasciano l’arte sempre più agonizzante e dimenticata si fa urgente ricordare la sua funzione salvifica, si fa urgente ricordare la sua necessità in un momento critico come questo, perché proprio quando tutto è difficile, proprio quando il mondo sembra crollare, c’è bisogno di creare altri mondi, c’è bisogno di qualcosa che ci prospetti altre realtà possibili, che ci apra ad uno scenario di libertà. L’astensione dal piacere del godimento artistico annichilisce, svilisce, abbrutisce e dunque ammala, mentre l’intento, si era detto, sarebbe tutelare la salute, preservarla.

Quando un giorno, in un modo o nell’altro, tutto questo sarà finito, quando il virus sarà debellato, quando ci saranno sempre meno luoghi preposti all’arte ed alla cultura e sempre più centri commerciali, non dovremo dimenticarci di quell’altra malattia che ancora non siamo stati capaci di debellare, quella malattia strutturale e letale contro la quale mai dovremmo smettere di combattere che si chiama capitalismo.

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