Il seme biblico dell’olocausto nazista

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La Bibbia rappresenta la perdita del sacro

C’è un nodo profondo e insanguinato che congiunge l’olocausto per la “piramide” nazista all’olocausto per la piramide egizia. Tale nodo supera i mandala di ogni testo sacro, supera le cronache di ogni fatto storico; ed attraverso il popolo ebraico parla di ogni popolo, ponendo la razza umana, nella sua nudità ultima di fronte a una condizione che si fa sempre più problematica con l’ascesa della coolness della mente, e dei suoi poteri. La morte, il limite organico che separa l’ammasso di cellule umane dall’autogerminata pretesa psichica di trascendenza immateriale, il senso del limite comincia a dare fastidio. 

La variabile intensità delle lotte per spazzare via ogni possibile ostacolo al proprio immaginarsi dèi, -e la conseguente frustrazione per non essere riusciti mai davvero a recidersi le radici di carne, e vincere la dannata forza di gravità a cui tutti si è soggetti, nell’allucinazione di essere davvero l’immagine immaginata, senza affrontare la paura-, rappresenta l’ingresso dell’essere umano nella modernità, nell’oggi, l’era della mente: Kaliuga. Cosa significa? 

Stando alla Genesi, e al supposto tempo a cui potrebbe riferirsi, sembrerebbe che l’Adam (il maschio e la femmina), sbucando fuori attraverso i vortici della spina dorsale della propria evoluzione (sessualità, affetto, comunità, amore, parola…), giunto alla soglia del cranio, non bastante più l’amore e superandolo dunque il congiungimento di cielo e terra in cuore, in abbraccio, ascendendo verso la liberazione della mente, l’io, abbia conseguentemente rotto un equilibrio, mutando il concetto di sacro. Sovvertendolo, virando bruscamente dall’unione appunto di cielo e terra (da cui deriva l’energia vitale), all’infelicità seducente dell’io (da cui derivano le religioni), rinchiudendosi sempre più nella curvatura del cranio in cima all’attico verticale della propria anatomia umana. 

Tutto il senso di Genesi e Levitico sembra in tal senso riportare indietro, verso una casa di prima, forse l’Età dell’oro? Forse il limite di quel congiungimento? Comunque un prima delle piramidi, un prima dell’Eden, prima del dominio della mente. Prima che il sacro potesse essere nominato e dirsi comunque sacro. Prima che un’immagine potesse prendere il posto di ciò che è vivo -oggettivamente vivo in virtù del mutamento che muove, non verso il caos, ma verso il compimento. Il bene-.

Cosa ci fu prima di un io tanto sovraesposto, della mente assetatissima, della busta fosforescente per avvolgere i cadaveri? Ci fu l’Età dell’oro?

Attraverso la filigrana biblica, l’umanità sembra mostrarsi -senza dirsi- felice (sulla via della felicità), l’Adam si intravede in una fase precedente, una fase che sembra coincidere con un ossigenato risalire lungo il chakra del cuore, vibrazione che si compie per la prima volta nel cosmo e nel corpo, un corpo che si erge, un cosmo che si allontana, dal radicarsi al crescere giocando ad essere in equilibrio con l’energia di cui è tessuto. 

L’Adam ebbe facoltà di essere in equilibrio tra positivo e negativo, tra albero della manifestazione biologica, scendere a coltivare, forma; ed albero dell’allucinazione mentale, salire a sognare, informazione -quindi tra cielo, libero creare; e terra, divenire; da cui peraltro è ipotizzabile l’equilibrio tra maschio e femmina, inteso come equilibrio tra energia maschile ed energia femminile, pieno e vuoto, stato e comunità, insomma il tendere al Tao. Il potere di calibrare il mangiare e non mangiare biblico, cose di umani pieni di universo. In quel remoto spazio tempo si intravede il profumo dell’universo, la felicità. 

La rottura di questo metaforico elettromagnetico ricongiungimento verso un tendere a portare sù l’energia dal cuore alla gola ed alla gola alle alte sfere, fino ad imporre la sacralità di una propria visione, è il canto di sangue della modernità, lo zampillante pozzo di petrolio psichico di Kaliuga, gli ultimi 6000 anni di genocidio e genio artistico. 

La Bibbia mostra le conseguenze rovinose di ciò sull’anima sulla manifestazione, la prospettiva di crollo della piramide,  il perno mancante su cui si è fondata l’ingnegneria sublime del pensiero, unitamente alla nostalgia dal soffio vitale, che è difficile da dire, da prendere e fermare, perché in costante mutamento. 

Tutti i primi 6.000 anni di Kaliuga esprimono in macrostruttura un sempre più mastodontico e letale portare a livello istituzionale/politico di sacralità, di non oltre “noi”, non più l’oggettiva potenza mistica ed alfabetica della natura (la cui energia che si intreccia in un ordine numerico verso il compimento nell’anima umana è il soffio impronunciabile del bene, l’unione del fiore di loto cielo/terra) bensì la soggettività, l’immagine immobile, lo schermo televisivo.

Si scende da cielo e terra, a cielo e terra secondo un ipotetico signor verticale, o qualunque altro Faraone, maiale, tapiro d’oro, alfiere di trascendenza abbia una storia da raccontare apparendo nel segno meccanico della verticalità di un qualche media. 

Il patriarca Abramo non è per niente calmo

Stando sempre a Genesi, il determinante passaggio del sacro da “cosa” non pronunciabile (non nominare il nome di Dio) a ego (io sono l’immagine di Dio…) sarebbe stato piuttosto repentino. Impossibile soffermarsi ora sul “laboratorio” dell’Eden, o sulla relazione con il Taoismo, più utile soffermarsi su una delle figure fondamentali della storia del popolo ebraico. Il patriarca Abramo. Prima del patto, ancora giovane, nei brandelli di racconto biblico, egli entra in scena con un interessante atto, quasi terroristico: distrugge gli idoli di suo padre. Ciò non significa che prima di quel tempo, gli umani non fabbricassero idoli: si può immaginare un umano, un Adam, che non abbia in testa o in cuore di venerare qualcosa? Non sarebbe umano, l’umano non è una scimmia che medita, è anche una scimmia che medita, per poi fabbricarsi però il costumino da guru orientale…

Paolo Veronese – Il Sacrificio di Isacco (1586)

Ciò che cambia nel tempo biblico è il luogo che viene socialmente concesso al “costumino orientale”: improvvisamente un altare altissimo, l’ultimo: il cielo e la terra espropriati. Gli idoli salgono, principiano a divenire inquietante pronome della potenza della natura, del mutamento, pur essendo cose fatte dagli umani. Un assurdo. Fuori controllo, la mente, porta la visione, i brandelli artigianali di sé -costumino orientale, logo aziendale, mito della razza…qualunque maschera possa, svolgendosi in racconto, essere seguita, venerata, riempiendo totalmente l’orizzonte, escludendo la possibilità di un oltre “noi”- sopra ogni altra cosa, anche oltre la vita, quindi, si ribadisce, oltre la legge del mutamento: la soggettività, il disegno, sopra l’oggettività, la natura. Come non innervosirsi? 

Nella Bibbia la verità biologica del verbo di cielo e terra (la conoscenza) viene scalzata dalla verità psichica della Torre di Babele, o del Bosco verticale. Lungo la spina dorsale della storia delle nostre carni, l’energia vitale sale (o viene fatta salire?) comunque si fa sempre più sottile, sempre più verso gli occhi, il vedere, la chiaroveggenza. E giunge alla soglia di un brivido, di poter fare il furto di una cosa bella,  che non appartiene a nessuno. E non è che energia vitale che fa muovere una pellicola e sognare, pretendendo il sogno reale.

Questa prepotente e piuttosto balorda azione blasfema è la causa che probabilmente irritò Abramo e pose l’Ebraismo, nel suo seme iniziale, come antidoto all’idolatria malsana dell’età moderna, che è il tempo di Abramo. 

Nel solco di tale inquietudine Abramo, come altri, nel Libro sembra ricevere o cercare una risposta fortemente orientata al concetto di limite; la morte è luce ed è l’emblema di ogni limite per l’uomo faber, il limite serve ad ancorarsi a terra per ascendere al cielo. Si radichi la bestia per il volo dell’angelo è l’alfabeto di cielo e terra. Si stia nella morte per vivere.

Di questo limite biologico, nonché azione mistica potenziale, il popolo ebraico sembra fatalmente essere custode: l’essere mortali davanti a tutti i faraoni.  L’essere nuda terra davanti alle piramidi.

Il popolo ebraico -più o meno consapevole di sé e di cui, per giusto contraltare, oltre al citato patriarca Abramo, va ricordata anche l’animalità orgiastica ai piedi del monte Sinai, in attesa di Mosè e delle tavole del limite, scalpello per la felicità; un popolo pertanto totemico e distante anni luce dal luogo interiore della Terra promessa, geografia peraltro donata a loro in risarcimento dopo l’olocausto nazista, dal potere buono, in un clima di socialismo durato ben poco- sembra essere il logos riaffiorante di ciò che si è tentato di recidere per farsi dei. Il corpo è il costo finale. La sua recisa energia vuota, rispetto al pieno raggiunto dalla mente. Il popolo ebraico negli olocausti è un fantasma che nel suo dover essere sterminato torna senza morire mai. Il popolo ebraico è l’ammasso di cellule orizzontali sprofondanti come una terra abbandonata, o meglio è la conseguenza di una terra abbandonata; il rimasuglio umano fatto schiavo o mandato al gas, e tuttavia duro, inscindibile come un nodo, viscere che rinasceranno sulla cenere, sul campo gelato su cui sincronicamente si riflette il cielo che, come un diaframma deformato orribilmente ma significante-  rappresenta la parte immateriale (di materia sottile come il gas) che sta determinando quella cenere quel gelo, il delirio verticale di una mente sganciata, l’abbaiare dei dobermann all’arrivo, l’orrore di un umano che per l’ennesima volta si è arrampicato oltre il limite, verso Dio, con un’astronave con una svastica, per farsi epica, lassù verso la sua informazione, i suoi elementi, la sua creazione. E nella terra riflette il suo cielo. 

L’olocausto è dunque la manifestazione alfabetica e rivelata di squilibrio tra cielo e terra, dell’universo che si frammenta progressivamente nell’Adam.

Himmler: dalla vacca indiana alla bufala ariana

Non fu Hitler, come è noto, il sobillatore della Soluzione finale, ma Himmler. Proprio dalle instabili condizioni psichiche del sadico gerarca suicida -nonché amico personale del Fuhrer- si origina precisamente il campo, la mente isolata in cui sboccia il fiore di loto dell’inferno. 

Le cose a corte non andavano bene in quei primi anni Quaranta. La Russia in particolare si stava rivelando una gigantesca bocca buia e ghiacciata che divorava inutilmente la meglio gioventù di una folle Germania, ma non è nel segno di questo lutto l’assedio che subiva Himmler. La responsabilità che Himmler si era assunto tra i suoi, e davanti al suo popolo, era quella di trasformare in verità istituzionale, in verbo, anni ed anni di propaganda fondata sulla superiorità della razza. Tuttavia il preteso verbo, fino a quel punto, non si era trasformato che in una violenta umiliazione personale. Facile raccontarsi di essere dèi da ubriachi nei bar di Berlino, meno facile verificarne la presenza nella realtà, sul campo! 

Il mito della razza ariana rilette una sete di immortalità,  di una linea alta, un lignaggio sovrannaturale,   che provenga direttamente dal cielo e che al cielo sopra la terra, lungo la terra riporti. 

Ma in un’epoca di grande coolness scientifica, come dare validità storico/antropologica al “nostro essere ariani?” Come non averne bisogno?

Gli stessi nazisti volevano esserne convinti di essere ariani, veramente. Ne avevamo bisogno per i crimini che stavano compiendo. Avevano bisogno di una storia vera. Ed in oltre dieci anni di sovraintendeza, Himmler non aveva trovato che ossa mute, veramente.

(E dagli scavi nella terra, si discese agli “scavi” nelle cavie umane, in segreto.) 

Nei termini di umiliazione pubblica va osservata l’iniettabile figura di Himmler. La fantomatica verità incontrovertibile “la prova” della superiorità della razza ariana millantata, delle mitiche origini del popolo tedesco, non era affatto emersa. Alla baracca mancava un perno fondamentale. 

Nessun cugino Shiva all’orizzonte, nessun mitico Enea dall’oriente. Intorno al nazismo solo problemi politici grossi e…cosa stavano raccontando al popolo? Balle? Su cosa si sta immolando il presente pubblico?

Non sono questioni da sottovalutare, esattamente come non sono da sottovalutare le fragilità politiche egizie, che determinarono l’improvvisa messa in schiavitù di una comunità che da un paio di generazioni viveva pacificamente intorno al Nilo, ivi pacificamente condotta. Il discendere dell’onda sorgente politica si fa necessità psichica di innalzare piramidi, più o meno metaforiche. Sopraggiunge su entrambi gli scenari idolatri un momento di debolezza in cui al popolo e a sé,  si rende proprio necessario raccontarle, le piramidi.

Tornando alla Germania e in particolare al lavoro accademico di Himmler, sono noti a tutti i goffi tentativi che egli fece per configurare alla discendenza ariana una qualche validità scientifica, oggettiva. Tutti esperimenti fallimentari, si sa: dai ridicoli e “wagneriani” scavi in Germania fino alle ignorantissime spedizioni in Tibet: operazioni utili oggi soltanto per credere quanto la moda dell’Oriente pervadesse gli “illuminati”, almeno alla corte del Fuhrer (Eva Brown praticava Yoga). Comunque, al di là dei costumini da guru, si veda nel grande no ricevuto dalla realtà, il clima tesissimo, iracondo, nella scatola cranica di Himmler: il sogno mediatico non si era realizzato, assolutamente. La promessa non era stata mantenuta, troppo oltre la realtà. La Germania non era quel popolo, forse la Germania non poteva dirsi neppure un popolo, nei loro termini. Non piccola sconfitta, onta su onta che come un tarlo erodeva il legno dei loro idoli psichici. La verità del loro mito.

Anni ed anni a sbandierare il Volksgeist  tedesco come superiore a tutto e a tutti, derivante addirittura dalla misteriosa ed “esoterica” India, e alla fine questo Volksgeist tedesco non fu che una nave vichinga incagliata in mezzo alla Foresta nera! Volevano essere gli dèi ariani, essere quella fascinazione mistica, e alla fine della fiera di sangue non furono che farmaci per sedare la rabbia di essere andati a sbattere contro il limite. Che sempre limite restava, nonostante le orge, nonostante l’alcol. 

L’olocausto giunse proprio lì: nell’hangover di un risveglio da un sogno assurdo: oltre il bunker della mente, oltre quella velocità della luce, non si riusciva più a procedere, neppure coi carri armati, i nazisti scendevano verso il campo della realtà; un sogno poi un incubo che, nel procedere tetro di quella guerra imperialistica di Kaliuga, fu un clima teso di afflizione che fatalmente andò a scontrarsi con un ulteriore problema, che riguardava però gli ebrei. Le nazioni intorno alla Germania non erano più disposte ad accogliere profughi; ucciderli tutti ad uno ad uno con un colpo di pistola, avevano provato sì, ma era troppo lungo, costoso e complicato. I loro averi semiti erano già stati trafugati, l’oro  si era già mutato in cocaina e polvere da sparo. Restava il problema di cosa fare di quella moltitudine di corpi di gente rapita da casa, cosa fare insomma delle cellule di quella cosa indistruttibile e oscura: gli ebrei, che per quanto infangati da un decennio di propaganda nazista, rappresentati come ignobili ratti dal sistema dalla verticalità estrema, continuavano ad essere un popolo, almeno agli occhi di chi un popolo non era riuscito ad esserlo. Nonostante i mezzi.

E non importa quanto poco di ebraico potesse già allora esserci in quella comunità -più che religiosi, privati cittadini tedeschi, per Himmler non potevano che essere un popolo, il bersaglio contro cui la sua personale umiliazione di accademico accanì il risarcimento. Grande la bugia, grande il sacrificio. Facilissima la soluzione. Esisteva forse un nazista che non li volesse tutti morti quei ratti? E si fece.

Dovette schizzare davvero come un pozzo, sù e fortissima, la rabbia alcolica, si scrisse con il sangue  nel cielo l’idea geniale che fece brillare finalmente di nuovo gli occhi al Fuher, bella idea: la Soluzione finale, scagliata contro la storia di un popolo, peraltro neppure eccelso nel raccogliere il messaggio anti-idolatra dei profeti, ma che per la seconda volta si trovò sacrificato, messo in mezzo, fatto discarica dell’altrui idolatria. Terra/cellule fatta cenere cielo/mente fatto Dio.

L’inaridimento della Terra promessa

L’origine dell’olocausto non è dunque solo il suo manifestarsi nell’idea di razzismo, o di progetto di annientamento di un razza, il razzismo nazista -il suo proprio svolgersi- è espressione,  manifestazione di un nodo più profondo: il mantenimento atroce di un potere intoccabile sopra tutti, spirituale. 

In tal senso olocausto egizio ed olocausto nazista possono essere paragonati, mettendo anche la relazione contorta e mutevole con la centralità Terra promessa. Cosa è la Terra promessa e per quale motivo è coincidenzialmente epilogo “positivo” di entrambe le piramidi di sangue. In un caso, donata da Dio e, nell’altro donata da un potere buono” in risarcimento. Si tratta dello stesso potere? Per quale motivo il popolo ebraico avrebbe dovuto accettare in dono qualcosa che prima fu donato a loro dall’impronunziabile soffio vitale supremo? Pericoloso addentrarsi in tale cunicolo geopolitico, che tuttavia mostra l’aggravarsi dei due olocausti nel segno proprio della prospettiva di una Terra promessa, forse come palese aggravarsi da messa in schiavitù a genocidio. 

Il deserto forse non si è mai superato? La Terra promessa è più un luogo interiore o più un luogo geografico? Anche la Terra promessa sembra dunque sospesa tra due dimensioni, che sono il fuoco dell’universo. Il gioco di elementi. La Terra promessa è equilibrio di cielo e terra, è Tao. In campo c’è l’energia della terra e l’energia della sua informazione, la “promessa”. Cosa più di una promessa rappresenta l’energia maschile: la promessa immateriale che una forma verrà presa dentro quel luogo orizzontale materiale, la terra. 

Nel sempre più fratturato non mantenimento di tale terra, in luogo dell’assurdità sempre più illimitata di una promessa, dell’informazione vista nel cranio, è la cucitura dei due olocausti e di tutte le forme di prevaricazione sociale, che si aggravano vorticando sempre più in Kaliuga. 

Si noti infine il gesto del battito di ciglia dell’eternità: un vorticare sempre più vertiginoso del fiore di loto -il Pianeta- insieme ad ogni singola coscienza, ad ogni singolo fiore orfano, precipitando sempre più lontano da casa, ognuno sempre più chiuso a chiave dentro il proprio bernoccolo psichico; eccolo l’ultimo olocausto che giunge, velocissimo: l’Adam non più pelle, non più razza, solo occhi, solo coscienza e rabbia, che si esaurisce nella solitudine di un bunker, nel proprio inaudibile grido, pur nella capacità raffinata ed ipertecnologica di costruire piramidi ed altri marchingegni sacromuniti, allo scopo millenario di convincersi di essere dei, senza mai potersi liberare dall’incubo di poterla vincere finalmente, veramente, la morte, il limite. 

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