Il concetto di spazio secondo Michel Foucault

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L’eterotopia della deviazione

Quando oggi si parla di spazio, implicitamente, ci si sta riferendo ad un luogo in cui si sono concentrate una moltitudine di relazioni sociali che hanno dato vita all’innesto tra significato e funzione. Il teorico dello spazio per antonomasia fu Henri Lefebvre il quale sosteneva, per l’appunto, che lo spazio si produce e non pre-esiste mai l’occupazione del soggetto. Quando usciva per la prima volta La produzione dello spazio(1974), Lefebvre portava avanti una tesi che investiva lo spazio di una concettualizzazione insolita, ovvero lo vedeva come il prodotto di un insieme di relazioni sociali, politiche e culturali. Nello spazio, a partire dal discorso di Lefebvre, si cominciano dunque a localizzare tutti i significati prodotti dall’insieme di queste relazioni e si comincia a leggere lo spazio stesso in base alla funzione istituzionalizzata da parte delle stesse relazioni, comprendendo come – in specifici spazi che divennero oggetti d’indagine negli anni Settanta – si comincia a dipanare un discorso su ciò che prende il nome di “eterotopie”. Quest’ultime le vediamo in larga parte affiancate al nome di uno dei padri del post-strutturalismo francese e uno dei cosiddetti maitre à penser del Novecento, ovvero Michel Foucault.

Quando Foucault parla di eterotopie le pone in contrapposizione identitaria a ciò che viene definito come “utopie”. Quest’ultime rientrano nella logica che inquadra uno spazio irreale, ovvero quella tipologia di luogo che intrattiene – come dice lo stesso Foucault – “[…] con lo spazio reale della società un rapporto d’analogia diretta o rovesciata[…]”(Foucault, in Millepiani 1994). L’utopia, per Foucault, rappresenta un qualcosa di essenzialmente irreale, qualcosa che rapportato – con lo stesso significato mutuato dai confronti con le grandi ideologie – con lo spazio sociale sembra non poter essere rappresentato fisicamente. L’utopia, dunque, entra in contrapposizione – come precedentemente affermavamo – con l’eterotopia, che funge – al contrario – da reale luogo che si interseca con la fitta rete di relazioni sociali che producono lo spazio totale. L’eterotopia, inoltre, funge da nucleo generatore di una diversa tipologia di relazioni funzionali che fanno di essa un “contro-luogo” rispetto al canonico spazio sociale. Dunque, stiamo parlando di spazi che fondano la propria ontologia su l’idea di essere o rappresentare qualcosa di diverso da ciò che, per convenzione sociale, viene definito come normale e normalizzato secondo un codice specifico.

Riprendendo la scia di pensiero di un geografo statunitense, Edward Soja – teorico del cosiddetto “terzo spazio” – notiamo come l’autore evidenzia che le eterotopie possono essere colte attraverso uno sguardo lateralizzato, poiché si identificano con una posizione spaziale che per essere localizzata ha bisogno di una vera e propria distorsione. Molto interessante come punto di vista, poiché permette di capire ancora più a fondo le tesi di Foucault sul come le eterotopie si cristallizzino all’interno del panorama della devianza, definendole – infatti – come “eterotopie di deviazione”. Quest’ultima specifica tipologia fa luce sul fatto che all’interno del pensiero di Foucault vi siano varie identificazioni dell’eterotopia, ma quella inerente alla deviazione sarà l’oggetto di questo discorso poiché all’interno di questa tipologia specifica si ripongono quegli stessi individui che sono agiti da comportamenti devianti in rapporto alle regole imposte dal sistema sociale e che per l’appunto, per una loro collocazione spaziale, necessitano di eterotopie di tale genere. Dunque, di conseguenza, le eterotopie di deviazione diventano, per esempio, le case di riposo, le cliniche psichiatriche e anche le prigioni. Luoghi, questi, che sviluppano la loro esistenza all’interno di una dimensione periferica e marginale, che riesuma – in quella sottile linea rossa tra il normale e l’a-tipico – il senso della loro funzione disciplinare e correttiva. Luoghi in cui il potere dello spazio istituzionalizzato agisce sui corpi e da dentro i corpi, generando – nel tempo – corpi manipolati appartenenti a menti asservite.

Lo spazio del controllo: il Panopticon

Quando, a Michel Foucault, venne chiesto da Jean Pierre-Barrou come avesse scoperto il Panopticon, in una conversazione riportata nel testo “Panopticon, ovvero la casa d’ispezione” (1983) di Bentham, egli spiegò che tutto è iniziato con uno studio sulle origini della medicina clinica e sull’istituzionalizzazione dello sguardo medico. Tutto un inizio che poi portò, l’autore, da un’attenzione basata unicamente sul controllo del corpo all’interno della clinica, ad un controllo sui corpi da parte delle strutture penali e quindi delle carceri. Continuando, nel testo della conversazione, Foucault spiega come si accorse che nel suo studio basato sulla comprensione dei grandi progetti di ristrutturazione delle prigioni vi fosse sempre presente la reiterazione dello stesso tema, ovvero, del Panopticon di Jeremy Bentham. Quest’ultimo rileva, nel 1791, la cosiddetta formula per un “potere per trasparenze”, ovvero, un potere che agisca non dal sottosuolo, ma in maniera per cui pur agendo da dietro la porta è ugualmente manifesta, un potere che nella sua pervasività diventa senza pietà e scellerato, pur non essendo scorto dalla vittima.

Foucault riprende questo merito, dell’invisibilità di un potere che rende ogni cosa visibile davanti ad esso, da Bentham e lo teorizza, utilizzandolo come paradigma del controllo sul corpo sociale. La struttura panottica si dipana all’interno di una dialettica tra il vedere e l’essere visti. Uno spazio, come direbbe Michel de Certeau, che “[…]…è un incrocio di entità mobili. È in qualche modo animato dall’insieme dei movimenti che si verificano al suo interno… […]” (1980). Costituito da una torre centrale che guarda un anello alla sua periferia, il Panopticon, diventa l’emblema di un controllo localizzato non su una persona fisica e specifica, ma sulla paura di essere continuamente osservati. Così, Foucault, in Sorvegliare e punire (1975), spiega come all’interno di questa logica del controllo non controllato, che a sua volta controlla e destabilizza il soggetto osservato, si istituisce una relazione di potere che oltre ad istituzionalizzare la funzione dello specifico spazio della prigione crea dall’interno, in maniera probabilmente meno diretta ma molto più efficace, l’assoggettamento dell’individuo. Nella paura di essere visti e guardati continuamente da quella torre centrale, il detenuto, diventa vittima di meccanismi pervasivi di osservazione, diventando l’oggetto principale dell’intenzione disciplinare e della correzione comportamentale. L’individuo, che vive lo spazio dell’anello attorno alla torre, non può vedere il polo del controllo, ma può soltanto rammentare e vivere tra quelle mura con l’idea che continuamente, in ogni sua mossa, sarà controllato. Su questo controllo onnipresente si innesta la paura della punizione, dunque, in questo modo si dipana una fenomenologia del potere inarrestabile che plasma dall’interno, passando anche dalla dimensione inconscia, il soggetto.

Un paradigma universale

Il Panopticon rappresenta e incarna l’avanzamento tecnologico del potere e delle sue logiche comportamentali. Nella sua struttura si identifica l’importanza dell’adoperare un potere che abbia costi minori ed efficienza maggiore, propriamente per quel gioco di movimenti interni che cita il de Certeau, movimenti causati da uno sguardo che controlla e che guarda come si dimena la sua preda nell’assoluta inconsapevolezza della prospettiva da cui viene osservato. Lo sguardo continuo nei confronti dell’individuo prende il posto della punizione pubblica e teatrale, il monito della punizione corporale e violenta viene scambiato con una intenzione più pervasiva, che parte dalla mente dell’individuo rendendolo vittima della paura e debole di fronte alla tensione dell’errore. Lo sguardo genera tutto questo, senza muoversi esso agisce.

Il Panopticon, dunque, diventa una struttura che “[…] … denota un significato…[…]”, per dirla con l’Umberto Eco de “La struttura assente”(1968). I “denotata”, come continuerebbe a dire Eco, sono i dati che all’interno della struttura rimandano al suo senso e alla sua funzione, essi identificano il rapporto tra significato e significante. I denotata del Panopticon, oltre che identificarsi nella sua specifica forma duale torre-anello, sono identificati anche dal fatto che tale forma specifica assume su di essa una funzione peculiare e dunque i detenuti stessi, mantenuti in quella specifica posizione tra le mura, diventano denotata di una struttura carceraria unica nel suo genere. Però il Panopticon, nella sua perfezione come struttura di detenzione, serve anche come universale paradigma da utilizzare per fare luce sul rapporto di forza che intercorre tra l’individuo sociale e il potere che pone le radici dal sottosuolo della società.

Il sociologo David Lyon, nel suo “La società sorvegliata” (2001), spiega come, per l’appunto, sia nelle aree urbane il luogo perfetto per cui la sorveglianza si faccia ancora più intensa. Dunque, leggere il Panopticon secondo una visione più “macro” potrebbe estendere largamente la concezione critica nei confronti di un sistema che ormai si è assolutamente normalizzato sul controllo che fisicamente è assente, ma che riveste quella presenza totalizzante e pervasiva, pronta a porti di fronte alle tue negligenze e ai tuoi errori.

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