Nel Nome del Padre: la storia vera di una clamorosa ingiustizia

In quest’ultimo periodo, dopo la clamorosa uscita dal Regno Unito dall’Unione Europea, stanno nuovamente riaffiorando negli “stati e province satelliti” delle terre d’Albione, voglie di rivalsa di un sentimento mai del tutto sopito. Se la Scozia è andata molto vicina a staccarsi da Londra nel 2014, l’Irlanda dal canto suo sta tentando di riappropriarsi di un territorio che, sia culturalmente che geograficamente, le appartiene da sempre: l’Ulster.

Dopo la guerra d’indipendenza irlandese, che permise ai cittadini dell’Isola di sbarazzarsi in parte dal giogo britannico durato ben centoventuno anni, ci fu un intoppo: l’Inghilterra se ne sarebbe andata dai territori irlandesi a patto che il Nord dell’isola, notoriamente più florido e ricco di industrie, rimanesse sotto il controllo britannico. Le sei contee finite in mani inglesi costituiscono i due terzi dell’Ulster, e spaccano la stessa provincia in due, con altre tre contee facenti parte della Repubblica d’Irlanda.

Tutto questo, ha creato non pochi problemi ai cittadini ritrovatisi stranieri in patria. Questo perché le contee del Nord, a maggioranza formate da coloni inglesi protestanti, hanno sempre trattato la minoranza “cattolica” con diffidenza, tanto da concedergli con molta difficoltà posti di lavoro o addirittura la normale assistenza che uno stato dovrebbe garantire. Questo ovviamente creò un immenso malcontento nella comunità, con mille espedienti per impedire l’autoaffermazione delle loro ragioni, come ad esempio l’organizzazione delle circoscrizioni elettorali in modo da non permetterne mai la vittoria per via democratica.

In questo contesto si svolge la storia vera di Gerry Conlon, ragazzo di Belfast che vive negli anni Settanta, nel bel mezzo del conflitto tra governo britannico e IRA che impazzava sino alla esasperazione: grazie al sodalizio artistico tra il regista Jim Sheridan e Daniel Day- Lewis si assapora addirittura la psicologia di una persona incriminata per un’azione mai commessa. Il viaggio che il protagonista si appresta a fare rappresenterà una riscoperta di se stesso e del padre Giuseppe (interpretato da un superbo Pete Postlethwaite), accentuandone le incomprensioni, ma anche il profondo affetto tra i due.

Il titolo della pellicola, che evoca scenari “profetici”, tratto dal romanzo autobiografico Proved Innocent di Gerry Conlon, dà lo spunto al regista di Dublino per rappresentare una intera nazione, afflitta da una vicina ingombrante che dichiarò guerra al cosiddetto “terrorismo”, sacrificando sull’altare dell’ipocrisia più di tremila persone. Il fragoroso sbaglio che la giustizia britannica fece, grazie ad una Polizia profondamente razzista e rancorosa, fruttò quindici anni di detenzione non soltanto a Gerry, ma anche al padre, che battendosi ostinatamente per i diritti del figlio fu anch’esso ritenuto colpevole di essere coinvolto nell’attentato dinamitardo avvenuto nel Surrey, in un pub di una piccola città (Guildford).

La giustizia inglese, pressata dall’opinione pubblica, volle a tutti costi trovare dei colpevoli alla svelta, mettendo in galera oltre ad i sopracitati anche altri giovani ragazzi, amici di Gerry, ed addirittura la zia ed i cugini ancora minorenni. Dopo poco tempo fu arrestato l’ennesimo paramilitare, che confessò di aver piazzato lui la bomba, prosciogliendo i giovani. Incredibilmente però la sua testimonianza fu ignorata, e solo grazie all’immenso lavoro dell’avvocato e attivista per i diritti civili Gareth Pierce (che attualmente rappresenta Julian Assange), si riuscì a riaprire il caso, scagionando completamente tutti gli imputati nell’Ottantanove.

I tratti psicologici dell’opera sono inevitabilmente complessi, non soltanto per la vicenda in sé, ma nella percezione stessa della giustizia, anche in un paese occidentale considerato evoluto come l’Inghilterra, che permise atti di tale nefandezza. In tutto ciò arrivarono le scuse ufficiali sia a quelli che la stampa aveva rinominato “I quattro di Guildford” che agli altri imputati e alle loro famiglie, formalmente solo sedici anni dopo la loro scarcerazione, da parte del primo ministro inglese Tony Blair.

Il film, grazie alla rabbia destrutturata di Lewis poi mutatasi nella ricerca di riscatto ed alla forte componente empatica di Postlethwaite, possiede un misto di collera e gaudio difficilmente riscontrabile in altre opere, proprio per l’enorme grado di intensità emotiva. Chi guarda ha la netta sensazione di trovarsi con Gerry quando viene torturato dalla polizia per estorcergli una confessione falsa, il dilaniamento non soltanto fisico ci rende partecipi di questa enorme ingiustizia. La colonna sonora colpisce come un pugno nello stomaco quanto lo stesso film, curata da irlandesi doc come Bono e Gavin Friday con la loro In the name of the father,  per spostarsi poi ad un’altra band storica irlandese come i Thin Lizzy, per finire con Sinead O’Connor.

L’opera vinse l’Orso d’oro a Berlino nel Novantaquattro, ricevendo numerose candidature all’Oscar, tra cui spiccano la miglior regia ed il miglior attore protagonista e non. Una pellicola che certamente sprona il senso comune, che dovrebbe servire da lezione a chi punta sempre il dito, giudicando a priori eventi e personaggi. Anche perché di certo nel nostro Paese non stiamo meglio a livello di ingiustizie ed avvenimenti poco piacevoli, soprattutto nelle caserme, luoghi che dovrebbero essere solo di difesa del cittadino, e che a volte però si trasformano in posti infernali e privi di qualsiasi umanità.

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