L’insostenibile leggerezza dell’essere: l’eterna modernità di Milan Kundera

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È un giorno qualsiasi. Siamo al parco, in perfetta quiete a fare una passeggiata. Crediamo di mantenerci in piedi perchè siamo giovani o adulti, sicuri o non sicuri di noi, desiderosi o preoccupati. In ogni caso, in qualunque modo noi ci sentiamo, in quel preciso istante non conosciamo affatto quel qualcosa che ci permette di reggerci in piedi, o perlomeno non lo prendiamo in considerazione. Partendo dal concetto di quella che Freud chiama “la zona inconscia”, noi siamo appunto sorretti da un susseguirsi di pensieri che ci portano a compiere determinate azioni dette appunto inconsce. Ma qual è quella forza che decide se noi ci muoveremo in una maniera piuttosto che in un’altra? Se prenderemo la strada a destra o a sinistra? Sembrerebbe una cosa tutt’altro che dimostrabile fenomenologicamente. Difatti Nietzsche alla luce di queste parole avrebbe sicuramente sghignazzato sotto i baffi, anche se è proprio un suo concetto che permette a Kundera di scrivere le prime pagine de L’insostenibile leggerezza dell’essere.

Già, perchè secondo Kundera l’idea dell’eterno ritorno ha messo molti filosofi nell’imbarazzo: il fatto che un singolo evento debba ripetersi all’infinito è un folle mito. Esso afferma che la vita che scompare una volta per sempre è simile ad un’ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che sia stata essa terribile, splendida o pacata, quella bellezza, quello splendore e quella pacatezza non significano nulla. In questo senso, la storia dell’uomo si carica di significato allo stesso modo. E come spiega Kundera:

“Se la rivoluzione francese dovesse ripetersi all’infinito, la storiografia francese sarebbe meno orgogliosa di Robespierre, dal momento però, che parla di qualcosa che non ritorna, gli anni di sangue si sono trasformati in semplici parole […]. C’è un’enorme differenza tra un Robespierre che appare una sola volta nella storia e un Robespierre che torna eternamente a tagliare la testa ai francesi. Diciamo quindi che l’idea dell’eterno ritorno indica una prospettiva dalla quale le cose appaiono in maniera diversa da come noi le conosciamo.”

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Milan Kundera

Questo Tomas non lo sa, ecco perchè incessantemente è scosso da un movimento perpetuo che lo trascina da una donna ad un’altra. È travolto in ogni momento della sua vita da una viscerale voglia di essere leggero, di lasciarsi trasportare dall’andamento sinusoidale dell’esistenza; infatti di punto in bianco abbandona moglie e figlio per andare a vivere da solo, essi lo serravano, gli impedivano la corretta respirazione. Ma la sua pseudo-libertà era stata possibile solo fino a quando all’ospedale della città di Tereza era stata scoperta per caso una forma insolita di meningite e il primario di Tomas era stato chiamato per un veloce consulto. Il primario, però, aveva per caso la sciatica, non poteva muoversi, e al posto suo all’ospedale di provincia aveva mandato Tomas. In città c’erano cinque alberghi, ma Tomas era sceso per caso proprio in quello dove lavorava Tereza. Per caso prima della partenza del treno gli era rimasto un po’ di tempo libero per andare a sedersi al ristorante. Tereza era per caso di servizio e per caso serviva al tavolo di Tomas.

Non è un caso che i due amanti, successivamente coniugi, restino insieme per tanti anni nonostante Tomas non rinunci alla sua vita poligama. Lo è invece il fatto che essi si siano incontrati in quell’istante in quel posto preciso, ed è proprio a causa della fortuità del loro incontro che, consci della loro l’incompatibilità, abbiano trasformato l’evento singolo in bellezza eterna (dico “eterna” non in quanto credo ad una possibilità di amore eterno, questo è possibile solo all’interno di una chiesa, ma perché a prescindere che esso possa averci recato dolori o gioie è destinato a rimanere nella memoria per sempre; e la memoria è poesia). Ed è proprio la casualità che secondo l’autore costruisce le vite umane:

“L’uomo, spinto dal senso della bellezza, trasforma un avvenimento casuale in un motivo che va poi a iscriversi nella composizione della sua vita. Ad esso ritorna, lo ripete, lo varia, lo sviluppa e lo traspone come fa il compositore con i temi della sua sonata.”

La storia in buona sostanza è un arrovellio di trasferimenti da parte dei protagonisti da una nazione ad un’altra, cui fanno capo il comunismo russo, difatti il romanzo è ambientato a Praga nel periodo dell’occupazione russa del ’68. Spesso Tomas e Tereza sentono gli aerei russi sorvolare il cielo praghese, sovente Tereza fotografa i carri armati, i soldati russi e la gente che si rivolta in strada spinta da “un’euforia dell’odio”.

Tomas disteso di fianco a Tereza febbricitante, ha riconosciuto in quel momento l’immagine ricorrente degli antichi miti nel quale un bambino deposto in un cesto veniva inviato a qualcuno sul filo della corrente. Per questo motivo un giorno si ritrova tra le mani la traduzione dell’Edipo di Sofocle.

La storia di Edipo è nota: un pastore trovò un neonato abbandonato e lo portò al re Polibo che lo allevò. A seguito di una discussione, nella quale Edipo era già un giovincello, quest’ultimo uccise il padre e diventò il re di Tebe. Il fato però, perseguitava i suoi sudditi tormentandoli con delle malattie. Quando Edipo capì di essere lui stesso il colpevole delle loro sofferenze, si cavò gli occhi, e cieco, partì da Tebe.

In questo senso l’autore carica il libro, a mio parere, di una delle metafore più significative. Egli dice:

“Chi pensa che i regimi comunisti dell’Europa Centrale siano esclusivamente opera di criminali, si lascia sfuggire una verità fondamentale: i regimi criminali non furono creati da criminali ma da entusiasti, convinti di aver scoperto l’unica strada per il paradiso. Essi difesero con coraggio quella strada, giustiziando per questo molte persone. In seguito, fu chiaro che il paradiso non esisteva e che gli entusiasti erano quindi degli assassini.

Allora tutti cominciarono a inveire contro i comunisti […]. Coloro che venivano accusati rispondevano: Noi non sapevamo! Siamo stati ingannati! Noi ci credevamo! Nel profondo del cuore siamo innocenti!

La discussione si riduceva a questa domanda: Davvero loro non sapevano? Oppure facevano finta di non sapere?”

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Tomas era interessato alle discussioni e si disse tra sé che la questione fondamentale non era se sapevano o non sapevano, bensì se si è innocenti solo per il fatto che non si sa. Fu da questa domanda che gli venne in mente il mito di Edipo: Edipo non sapeva di star causando il male alle gente del suo regno, ma quando capì che ciò era accaduto, si cavò gli occhi e andò via da Tebe.

Difatti Tomas sentiva l’urlo dei comunisti che difendevano la loro purezza interiore e diceva tra sé: “Per colpa della vostra incoscienza la nostra terra ha perso, forse per secoli, la sua libertà e voi gridate che vi sentite innocenti? Come potete non provare raccapriccio? Siete o non siete capaci di vedere? Se aveste gli occhi, dovreste trafiggerveli e andarvene da Tebe!”

Kundera non si esenta affatto dalla critica all’occupazione comunista, e come si muove quest’ultima? Sottesa nella declassazione di Tomas che dall’essere uno dei più bravi medici chirurgi della zona, diventa un lavavetri a causa della stesura di un articolo proprio sulla metafora tra i comunisti russi ed Edipo. Il regime è chiaro e mira ben al di sopra della semplice retorica pomposa: esso decide di non pubblicare l’articolo e di non creare lo scandalo pubblico, ma a qualsiasi infrazione o movimento errato non ci sarebbe stato scampo per il povero Tomas, che circondato ormai da un deplorevole senso di angustia, dovuto anche al fatto che ufficialmente l’articolo non era pubblicato ma ne erano quasi tutti al corrente, decide di autodeclassarsi. E per quale motivo? Per sfuggire alla pesantezza, alla lotta per la soggettività dell’individuo, per rannicchiarsi nella pacatezza della sua vita da uomo amante e uomo amato.

La figura di Tereza a mio avviso, è la più incredibile del racconto. L’autore stesso ci confessa che il suo personaggio è nato da un “dolore allo stomaco”. Ma perchè? Essa è il motivo secondo cui la dignità umana si regge in piedi, l’oracolo della sensibilità femminile tanto splendida quanto fragile. Tereza possiede una capacità d’amare e di ascoltare senza eguali, è chiamata ad una purezza primigenia che le impedisce di abbandonare per sempre Tomas. Forse colpa di tutti i libri che ha letto nella sua vita? Può essere, difatti possiamo dire che essa è pesantissima, porta sulle spalle il fardello dell’eterno ritorno, il peso più grande di tutti. Sembra che la leggerezza altrui le corroda l’animo, e nell’impossibilità di raggiungere quest’ultima si porti un tormento eterno con sé.

Le vicende, invece, di Franz e Sabina scorrono parallelamente a quelle di Tomas e Tereza. Ma con una piccola differenza: è la figura maschile ad essere leggera e quella femminile ad essere terribilmente pesante.

In conclusione, questo di Kundera, sembra essere il romanzo di un ciclo eterno, di imperituri sentimenti che accomunano tutti ad ogni tempo. Nel leggerlo, nel tracciare la personalità dei personaggi nella loro complessità, l’autore trasmette un incredibile senso di realtà. Nonostante i continui spunti di carattere filosofico esso non si lascia mai andare a tortuosità prolisse, lo stile con cui è scritto il romanzo, dice Calvino, “appartiene ad un altro universo”.

Ecco perchè L’insostenibile leggerezza dell’essere rappresenta il romanzo contemporaneo per eccellenza, appartenente ad una dimensione enormemente terrena nella sua labirintica rappresentazione filosofica e universale.

Cover image: René Magritte, Il Figlio dell’Uomo (1964)

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