Il Brady: “l’ultimo cinema dei dannati” di Parigi

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“Barboni, disoccupati stanchi di vivere, minorati mentali ed erranti, un cinese sciancato e vagabondo. E poi pensionati solitari, dementi, vecchi omosessuali magrebini e proletari, un esibizionista, due giovani prostitute algerine, qualche scapolo annoiato. Alcuni di loro vengono al cinema come andrebbero al bar, altri si vogliono solo svuotare la testa dopo una giornata di lavoro da schifo. C’è n’è qualcuno un po’ più imborghesito, di solito poi si scopre che è un maniaco sessuale compulsivo o un imbolsito segaiolo. Ai consueti abitatori del Brady si aggiungono, ma sempre più di rado, gli appassionati di b-movie. Infine gli spettatori non iniziati, di passaggio. Che probabilmente hanno sbagliato strada.”

È questa la folle porzione di umanità che dà vita al Brady, “l’ultimo cinema dei dannati di Parigi”, situato al numero 39 di Boulevard de Strasbourg, nel X arrondisment, ovvero in uno dei quartieri più multietnici della capitale francese. Il Brady, circondato da sale di parrucchiere afro e prostitute bulgare, è l’ultimo stoico baluardo dei cinema di quartiere, con una programmazione tutta incentrata su film di serie B e di serie Z. Per i non conoscitori del genere, Laurent il b-cinefilo, uno dei personaggi che è possibile incontrare nel cinema, ci spiega in poche parole il significato di cinema di serie B:

“Si parla di serie B quando, da un momento all’altro, si butta tutto in caciara. Gli spaghetti western che cominciano con stile e finiscono in mangiate di fagioli, i gialli ridotti a una sfilata di culi. Il b-movie è casinaro per definizione, attraversa ogni sorta di circonvoluzione per poi abbracciare il miserabile destino della frittata.”

I film proiettati sugli schermi del Brady sembrano dunque combaciare perfettamente per caratteristiche col pubblico eteroclito che anima la sala, oddio, anima è una parola forse grossa in alcuni casi, dato che per la maggior parte parliamo di barboni che non hanno un posto dove dormire e dunque passano la notte svegli per poi trovare negli spettacoli pomeridiani del Brady un’alternativa ben più economica ad hotel e ostelli.

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L’ingresso molto rassicurante del Brady

A narrare le vicende che si svolgono in questo microcosmo a parte c’è Jacques Thorens (probabile pseudonimo ispirato a Jack Torrance, lo scrittore protagonista di Shining, speriamo per lui non gli capiti la stessa sorte), che dal 2000 è stato proiezionista, cassiere e factotum del cinema, e che è al suo primo libro. Forse delle storie come quelle raccontate non avrebbero potuto trovare una migliore maniera espressiva se non nella scrittura fortemente ironica di Thorens: lo scrittore mischia alto a (soprattutto) basso, non raccontando le vicende in ordine cronologico ma accostando una storia all’altra e raggruppandole in piccoli capitoli i cui titoli spesso cozzano sarcasticamente coi contenuti (come in uno dei capitoli che prendono il titolo dal film torture porn, Ilsa la belva delle SS, e che poi parla della Passione di Cristo di Mel Gibson). Si passa così da una scrittura gergale che parla di una volta in cui un folle ha deciso di arrostirsi una salsiccia in sala, a una scrittura precisa e appassionata al tempo stesso che si lancia in concetti metacinemetografici o politici e sociali. La stessa divisone in capitoli non cronologici sembra riprendere la tecnica del montaggio cinematografico, una scrittura dunque che accosta dialetticamente un’inquadratura-paragrafo a un’altra, e che dà la sensazione di una vera e propria presa diretta (non per altro il progetto originale di Thorens era quello di girare un documentario).

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Quella boccata di cinema indipendente di cui tutti abbiamo bisogno

Thorens inizia dunque a lavorare al Brady nel 2000, ma in realtà esso è stato inaugurato nel 1956, specializzandosi fin da subito in film di genere (tra i tanti celebri spettatori fissi, Quentin Tarantino, Dario Argento e François Truffaut), per raggiungere però l’apice della propria follia nel 1994, anno in cui viene rilevato dal a di poco eccentrico regista Jean-Pierre Mocky:

“Acquistando una sala tutta sua sperava di poter dar sfogo alla sua bulimia filmica; finché non si è reso conto che al Brady non veniva a vederlo nessuno, i suoi film andavano meglio se uscivano da altre parti. […]. Eterno insoddisfatto, confessava che nessuno dei suoi film era come se l’era immaginato lui. Li considerava un po’ come vini che puoi lasciare invecchiare in cantina. […]. Il successo non è altro che procedere di fallimento in fallimento senza perdere entusiasmo. È una frase di Churchill, Mocky l’ha fatta sua.”

Questo Jean-Pierre Mocky inizia la sua lunghissima ed incredibilmente prolifica carriera registica nel 1959, con il lungometraggio Dragatori di donne (dal quale deriva drageur, termine gergale contemporaneo francese per indicare l’atto del rimorchiare), non prima però di essere stato protagonista non si sa come non si sa perché di uno dei primi lungometraggi di Antonioni, I Vinti (1953). Autore di almeno due-tre film all’anno (anche ora che è ormai un over ottanta), quasi tutti interamente autoprodotti, annovera nella sua cerchia di collaborazioni gente come Gèrard Depardieau, Jean-Luc Godard, Juliette Binoche e tantissimi altri. Mocky è “un personaggio mefistotelico di cui non ci si riesce a liberare, che sotterra i nemici uno dopo l’altro e ancora gli daresti vent’anni in meno della sua età. Il suo destino corrisponde sorprendentemente a quello del Brady: folle e inaffondabile”: il suo obiettivo massimo è scandalizzare i benpensanti, in qualsiasi modo possibile.

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Uno stranamente calmo Jeanne-Pierre Mocky

Nel 1994 dunque, come scritto in precedenza, Mocky decide di acquistare il Brady, tirando subito su al proprio interno una sala dedicata unicamente alla propria filmografia. Diciamo che la suddetta sala non sarà certamente la più frequentata, al contrario di quella principale, in cui si proietta tutta quella cornucopia di film di serie B classificata da Laurent: si passa dal porno, davvero esploso negli anni Settanta come genere a sé (di cui ricordiamo il meraviglioso Gola Profonda, in cui una tipa scopre di avere il clitoride in gola), a film di genere costruiti un po’ rocambolescamente con scarti di altri film (da Bruce Lee contro i Supermen a Zorro e i tre maschettieri), a doppi e tripli spettacoli con un tasso di trash molto spinto (Harry Potter proiettato con Schiava di Satana e Scopami) fino a robe onestamente indefinibili (La caricano in 101, Quella ninfomane di Lady Frankestein).

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Pensavate fosse uno scherzo, vero?

Ma Mocky ha anche dei valori, e infatti non ritarda quasi mai un pagamento ai propri dipendenti, tra i quali ci sono ovviamente Thorens stesso, ma anche Gèrard, un assiduo collaboratore di Mocky che non ha troppa voglia di vivere una vita che prende con una sardonica ironia, e che si reinventa all’improvviso protettore delle prostitute bulgare che consumano il marciapiede del Boulevard de Strasbourg, arrivando a organizzare proiezioni di beneficenza per salvare il figlio malato di cancro di una di loro. Tra i tanti poi esclusi e derelitti della società di massa che vivono quotidianamente il Brady spicca Django, che “ha passato tanto tempo in Algeria ma è originario dell’Italia meridionale, insomma un francese”, guarisce da un cancro ai polmoni senza comunque smettere di bere, nella vita fa il barbone però con una certa dignità, e che insiste sempre per pagare il biglietto al Brady.

Thorens, che ha studiato all’università e non se la passa certo malissimo, assume quasi i tratti di quel Pasolini che rivendicava la vitalità e la veridicità del sottoproletariato borgataro romano contro i mali del capitalismo culturale omologante che trasforma le persona in zombie viventi (per usare una similitudine da Brady): questo ammasso di esclusi dalla società (chi per la sessualità, chi per la razza, chi per l’orientamento religioso, chi per la povertà), viene opposto al resto della Parigi “bene”, così come il Brady viene opposto alle multisale che basano i loro incassi solo sulla forza dei popcorn e di qualche esplosione spettacolare. Ci troviamo non tanto di fronte a un’esaltazione del diverso, quanto a una sua piena accettazione (normalizzarlo vorrebbe dire annullare quanto di diverso e positivo c’è in lui), in fondo per Thorens non ha senso accanirsi sul diverso in quanto non ci vuole molto per diventare quello che viene guardato con disgusto e che vuole essere allontanato:

“Un giorno ti svegli malinconico o aggressivo e una voragine ti si spalanca sotto i piedi. Se ci cadi dentro gli altri indietreggiano con orrore, per paura di finirci anche loro. Tu pensi di conoscere esattamente il limite, il lato giusto del recinto dello zoo. E invece il recinto si muove: non dipende soltanto dalla sanità mentale, ma anche dalla fortuna di avere un tetto per dormire o genitori disposti a darti una mano”.

La paura ipocrita dell’altro viene poi simboleggiata a livello politico dalla condotta di un attaccatissimo Sarkozy, visto come uno che vuole ripulire le strade di Parigi, quasi per farle sembrare più belle ai turisti, senza però aggiustare veramente la situazione a monte: mettere in prigione le prostitute, e non i papponi, rastrellare tutti i barboni per quanto innocui dalle strade e non provare neanche a entrare nelle banlieue per paura di scatenare il putiferio, occultare insomma agli occhi dei benpensanti (sì, proprio gli stessi attaccati da Mocky) il lato sporco di un apparente progresso sociale.

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La copertina de Il Brady, pubblicato nel 2017 in Italia da L’Orma Editore

L’altro dunque viene ghettizzato in alcuni determinati ambienti, come il Brady, e quindi l’altro diviene per Thorens automaticamente il simbolo di un cinema che c’è stato una volta, e che ora non esiste più, di un cinema prima di tutto come luogo di incontro e di aggregazione, e solo secondariamente come sala di proiezione. A questo proposito esemplificativo è l’aneddoto raccontato dall’autore circa una sua esperienza in un cinema diciamo più “normale” rispetto al Brady: una donna entra nell’atrio del cinema parlando al telefono ad alta voce perché altrimenti per strada non avrebbe sentito bene cosa diceva la persona dall’altro lato del “filo”:

“Non c’è destino migliore, per l’atrio di un cinema, di diventare una cabina telefonica per cellulari. Nel frattempo le vecchie cabine, disertate da tutti, si trasformano in rifugi per i rom, o magari per un barbone che ne riempie una di buste di plastiche e piumini. Dove andremo a finire, signora mia?”

È evidente come qui Thorens identifichi sardonicamente nelle cabine telefoniche il nuovo rifugio per i barboni e non nel Brady, che diventando nel 2011 cinema d’essai  (ormai venduto da Mocky) assurge anche a simbolo del cambiamento dell’industria dei cinema: sempre meno sono le sale di quartiere, e sempre di più sono quelle multisale che “hanno tutto l’aspetto di ipermercati e basano il loro commercio sulla geopolitica dei pop corn”, in cui non c’è più un rapporto umano e in cui la gente alterna sguardi alienati allo schermo del proprio cellulare e al megaschermo che proietta il blockbuster del momento.

Thorens quindi tramite numerosi aneddoti davvero molto divertenti e nascosto sotto titoli di improbabili film di serie B, ci tiene a mandarci un messaggio d’amore verso il cinema vero, verso la pellicola graffiata e i salti delle bobine, verso un cinema indipendente e slegato da ogni concezione di marketing: un messaggio d’amore verso il Brady, l’ultimo cinema dei dannati, o meglio, l’ultimo rifugio della vita e dall’autenticità da una schiacciante  e deprimente omologazione di massa.

Il Brady di Jacques Thorens è su Amazon

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