Silence vs. Apocalypse Now: il cuore di tenebra dell’occidente

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Silence di Shūsaku Endō e Cuore di Tenebra di Joseph Conrad hanno molti aspetti in comune. Entrambi raccontano il viaggio di uomini profondamente occidentali (e civilizzati), costretti a confrontarsi con mondi completamente diversi (“selvaggi” nell’accezione occidentale, appunto) in pericolose missioni di recupero, inevitabilmente destinate al fallimento. Ed entrambi i romanzi rappresentano una critica al colonialismo talmente forte da mettere in crisi la stessa identità occidentale dei protagonisti.

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Partendo dall’ossatura di Cuore di Tenebra di Conrad, nel 1979 Francis Ford Coppola costruì una parabola sulla guerra del Vietnam; in realtà, com’è noto, l’idea originaria era venuta a John Milius ben prima che Coppola entrasse direttamente nel progetto. Fu Coppola, però, ad imbarcarsi in quella che verrà ricordata come la più titanica, folle e travagliata impresa della storia del cinema. Come l’esercito americano in Vietnam, “gli uomini” di Coppola erano troppi, avevano troppi soldi e si trovarono impantanati in mezzo ad una natura ostile e ad un popolo che non capivano e non li capiva. Con Apocalypse Now si realizzò (nella maniera più completa e imprevedibile) il miracolo narrativo dell’identificazione fra l’io narrato e l’io narrante, cosa che permise a Coppola di asserire a Cannes: “Apocalypse Now non è un film sul Vietnam. È il Vietnam“.

Le similitudini fra Apocalypse Now e Silence (curiosamente anche il progetto di Scorsese ha avuto una genesi travagliata durata oltre 25 anni) vanno ben oltre il superficiale elemento narrativo che, com’è evidente, attinge a quell’archetipo universale che è “il viaggio dell’eroe“.

Nel raccontare il percorso di un uomo occidentale che si immerge in una cultura estremamente lontana dalla propria, entrambi i registi sembrano ricorrere ad elementi visivi simili: la natura vivida (lussureggiante ma al tempo stesso ostile), le traversate in barca, durante le quali i protagonisti si sentono maggiormente soli e vulnerabili ed, infine, la nebbia che avvolge i nemici rendendoli ancora più misteriosi. Quello che rende ancora più stretto il legame fra questi due film è, però, la scoperta (traumatica, dolorosa, anche in senso letterale) della cultura asiatica: cultura che sembra più di altre capace di mettere in discussione le nostre certezze occidentali. In entrambi i film è proprio questo il nucleo centrale: l’attitudine innata nella nostra cultura occidentale a colonizzare con le proprie convinzioni sociali (o anche religiose) strutture sociali profondamente diverse e, per vari aspetti, incompatibili.

A questo proposito è utile riportare le parole di Scorsese (dall’articolo di Luca Celada in Il manifestoAlias del 31/12/16): “Voglio leggevi una cosa che ha detto uno dei gesuiti l’altra sera a Roma dopo aver visto il film. Il suo nome è Daniel Wong, asiatico, è incaricato (mi sembra) della diocesi delle Filippine ed ha parlato proprio dello zelo e della passione dei missionari gesuiti ed anche dell’implicita violenza, forse anche inconsapevole, di quest’opera (missionaria n.d.r.): ‘la loro certezza di avere un monopolio sulla verità, e il loro disprezzo della ‘verità’ giapponese, espressione di una cultura secolare, fu atto di violenza. E non deve sorprendere che lo zelo ben intenzionato venne percepito come arrogante violazione dagli stessi giapponesi’. E aggiungerei che i giapponesi percepirono molto chiaramente l’intento egemonico che si celava dietro il catechismo dei gesuiti.” Dunque, il punto di partenza è piuttosto simile: che siano gesuiti o soldati americani, gli occidentali si accostano al mondo asiatico (come a qualunque altra cultura) riproponendo il proprio sistema di valori.

Tuttavia questo approcio, almeno nelle menti più erudite (e Kurtz e Ferreira vengono appunto rapperentati come i più fulgidi esempi di “pensiero occidentale”), non può che condurre ad una profonda crisi delle proprie certezze che sfocia in un totale ribaltamento della loro posizione, trasformandoli nei principali nemici della loro stessa cultura. Coloro che verranno inviati a disinnescare la minaccia (Willard e Rodrigues), raggiungendoli, non potranno che giungere alle loro stesse conclusioni.

Arriviamo quindi ai rispettivi finali, in cui sia Coppola che Scorsese adattano gli originali letterari alle loro esigenze. Nella leggendaria incertezza che ha attanagliato Coppola nella scrittura del finale (tanto da girarne due: uno nel quale Willard torna a casa e l’altro nel quale si ferma e prende il posto di Kurtz, rifiutando però il suo regime di terrore) c’è comunque un ruolo attivo di Willard (che, in un certo senso, rappresenta un occidente ormai consapevole) alla ricerca di una sintesi fra i due mondi: che sia costruendo una nuova società frutto della fusione delle due culture o anche, semplicemente, riportando la sua consapevolezza a casa con se. Il finale di Apocalypse Now ci mostra l’urgenza del cambiamento.

Il finale di Silence, invece, è colmo di rassegnazione non solo per la scelta di Rodrigues di vivere i propri valori cristiani (occidentali) in clandestinità (ancora più che nel libro), ma soprattutto per averli ingabbiati in uno sterile simulacro da venerare come testimonianza del passato e incapace di parlare al futuro. Forse è la nostra stessa società, dopo “La Fine della Storia“, a non essere più in grado di vedere nel futuro un orizzonte vitale e in divenire, ma solo un simulacro di valori da custodire, senza sapere neanche più perchè.

Roberto Rosa

(articolo pubblicato originariamente su SentieriSelvaggi.it)

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