Good For Me, il déjà vu di Giorgio Moroder è il passato che arranca nel futuro

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Da qualche giorno è stato lanciato il video del nuovo singolo di Giorgio Moroder, Good For Me, con i vocal della giovane cantante inglese Karen Hardin (in rampa di lancio da qualche anno, dopo aver partecipato anche alla versione britannica di X Factor senza lasciare particolare traccia). Il pioniere della disco music e dell’elettronica anni ’70 ha ormai da qualche tempo ripreso stabilmente il suo posto nelle scene, dopo la chiacchieratissima collaborazione con i Daft Punk in Random Access Memories e con il definitivo ritorno, rappresentato dal suo quattordicesimo studio album, Déjà Vu.

Per qualche motivo, il titolo più recente della sua lunga discografia sembra calzare a pennello per quanto concerne le attuali scelte stilistiche del Maestro. Perché, non sappiamo se necessariamente a ragion veduta, anche il brano appena uscito sembra strizzare l’occhio alla dance di matrice a stelle e strisce, mira di dibattiti lunghi e laboriosi (che anche noi, su queste pagine, abbiamo trattato) continuati negli anni sugli effetti del fenomeno. Stiamo parlando, chiaramente, dell’EDM e dei suoi derivati: più giusto parlare di una costola meno club-oriented ma marcatamente radiofonica, nel caso di Good For Me, ma il principio del linguaggio che si evince è molto simile. E non parla di futuro, purtroppo neanche un po’, come ci si aspetterebbe invece da un compositore di questo calibro, che lo ha visto coi propri occhi, anni addietro. Se poi, come abbiamo visto nel recente passato, anche dei capisaldi si discostano da queste sonorità per tentare un nuovo corso, storciamo il naso nel vedere un fuoriclasse che invece tenta ancora di starci dietro.

Nel caso specifico, il video (qui sopra), sembra, senza fronzoli, una sorta di macchiettizzazione del fenomeno dance degli ultimi anni, con tutti gli stereotipi del caso associati alla figura del dj-celebrità. Perché l’impatto è, francamente, molto lontano da quanto una figura come Moroder dovrebbe assicurare, e benché se ne riconosca la caparbietà nel mantenersi in alto nelle gerarchie di questo star-system (per intenderci: il suo curriculum mette in imbarazzo chiunque oggi guadagni anche il triplo di  lui, con questo lavoro), la sostanza sembra trascinarsi verso un sentiero vuoto di senso. Le immagini di un nightclub semi-vuoto montate in maniera grossolana, la postazione del dj da cui sbuca un Moroder particolarmente preso che si dimena in consolle tra le onde intermittenti, Karen Hardin che balla e si attorciglia su un tappeto di luci stroboscopiche. Il vecchio pop non è così lontano dal nuovo pop, a giudicare dal risultato di questo prodotto.

Sull’intenzione artistica che sconfina quasi nel no-sense però, ci sarebbe qualcosina da ridire: forse del passato stiamo prendendo i frutti sbagliati. Siamo anche fin troppo abituati a lasciar passare in cavalleria il lavoro di chi consideriamo (e anche a merito) un “mostro sacro”, come il protagonista in questione è, ma fatichiamo a credere che la prospettiva della musica da ballo si trovi qui, per le stesse ragioni. Sia per quanto concerne la parte meramente spettacolare (l’era digitale ci ha abituato fin troppo bene, è vero, ma qui le riserve sul “fare male” un video dal vero si sprecano) che, senza girarci intorno, quella prettamente musicale. Il déjà vu di Moroder si è materializzato nelle sue stesse sembianze, forse inconsapevolmente, ma con effetti non troppo felici. Noi, non ce ne voglia, speriamo non sia premonitore per tutto il resto che ci aspetta là fuori, nel prossimo futuro.

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